Giovanni Porzio, il Venerdì 14/2/2014, 14 febbraio 2014
DOVE I BUDDISTI SONO VIOLENTI
Mandalay. Il corteo si snoda placido all’ombra degli alberi di tek, nella pianura dove la mitica Burma road si distende dopo i tornanti delle montagne. Alla testa i bonzi scalzi nelle tonache color zafferano e i novizi con le ciotole della questua; poi le monache con il capo rasato in abiti rosa confetto, i musicanti, gli stendardi con la svastica buddista, i carri addobbati trainati dai buoi e la lunga fila di fedeli vestiti a festa: gli uomini in longyi e camicia bianca, le ragazze con i fiori nei capelli e le guance incipriate della profumata polvere del legno di tanaka. Si dirigono a una pagoda nelle vicinanze di Mandalay, l’antica capitale della Birmania, per celebrare una ricorrenza religiosa.
È un’immagine da cartolina, che coincide con lo stereotipo del buddismo in voga in Occidente: una filosofia pacifica e meditativa, incardinata ai principi della non violenza, della tolleranza e della compassione per tutti gli esseri viventi che ha nel mite e assennato Dalai Lama la sua più alta figura rappresentativa. Ma quando il corteo si avvicina alla città i negozi abbassano le saracinesche, le strade si svuotano e la polizia antisommossa presidia gli incroci. Troppe volte, negli ultimi mesi, le adunanze dei monaci sono sfociate in esplosioni di inaudita ferocia contro la minoranza islamica, alimentando un conflitto che rischia di compromettere il tormentato cam- mino del Paese verso la democrazia. In un anno più di 250 musulmani sono stati uccisi e 150 mila hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per sottrarsi alla furia degli estremisti. Gli scontri sono cominciati nel giugno 2012 nello Stato di Rakhine: gruppi di fanatici armati di machete hanno assalito i sobborghi della comunità musulmana Rohingya massacrando 180 persone e provocando l’esodo di centomila sfollati. Benché siano qui da più di un millennio i Rohingya, a cui è negata la cittadinanza, sono considerati dai buddisti intrusi che occupano illegalmente il suolo birmano. Oggi a Sittwe, capoluogo del Rakhine, la pulizia etnico-religiosa è un fatto compiuto: i musulmani espulsi dalla cittadina portuale sono confinati in squallidi campi profughi circondati dall’esercito dove anche le organizzazioni umanitarie hanno difficoltà di accesso. Molti muoiono nel tentativo di raggiungere il Bangladesh o la Malesia a bordo di fatiscenti carrette del mare: in novembre, in un naufragio, sono annegati in 70.
Dal Rakhine la crociata sciovinista, alimentata da pregiudizi e vecchi rancori, è dilagata nel resto del Paese. Nel marzo 2013 ha investito Meiktila, a nord di Yangon. Un diverbio nella bottega di un orafo è degenerato in una rissa in cui ha perso la vita un monaco. La rappresaglia si è abbattuta come uno tsunami sulla comunità islamica: 40 vittime, interi quartieri rasi al suolo, moschee bruciate, venti alunni di una scuola coranica trucidati e i loro corpi dati alle fiamme. In agosto sono state ridotte in cenere centinaia di case musulmane nella regione di Sagaing. E lo scorso 13 gennaio, in uno scontro a fuoco dai contorni imprecisati, almeno otto Rohingya sono morti al confine con il Bangladesh.
La fobia anti-islamica è un retaggio dell’epoca coloniale e pre-coloniale. I musulmani affluiti nell’800 dall’India al seguito delle truppe britanniche occuparono i posti migliori nell’amministrazione e benché rappresentino solo il 5 per cento dei 60 milioni di birmani sono oggi – con i cinesi – il segmento sociale più attivo nel commercio e nella finanza. Il buddismo, ancor prima dell’arrivo degli inglesi, era parte integrante dell’identità nazionale birmana: i monasteri prosperavano all’ombra della monarchia; i sovrani, che dai monaci ottenevano investitura morale e legittimazione popolare, muovevano guerra – come i crociati che brandivano la Bibbia – nel nome di Buddha. La saldatura tra buddismo e nazionalismo militante si è consolidata negli anni della lotta per l’indipendenza. E il prestigio dei bonzi si è rafforzato quando nel 2007 sono scesi in strada per la rivoluzione zafferano contro la giunta militare di Yangon. Ma al tempo stesso tra i 500 mila bonzi del Myanmar è fermentato un movimento razzista e sciovinista che predica la guerra santa contro i musulmani e la supremazia etnica e culturale dei bamar, i birmani. Il loro logo è 969, le cifre che simboleggiano i nove attributi del Buddha, i sei principi del suo insegnamento, il Dharma, e i nove precetti del Sangha, l’ordine monastico. Il loro capo spirituale è un monaco di 46 anni dalla voce suadente che si autodefinisce «il Bin Laden birmano»: Ashin (Venerabile) Wirathu, l’abate del monastero Masoeyein. A Mandalay il complesso monastico sorge in un luogo simbolico, a poca distanza dall’immenso quadrilatero che racchiude la reggia degli ultimi sovrani birmani, re Thebaw e la regina Supalayat, costretti dagli inglesi ad abbandonare per l’esilio, nel gennaio 1886, il Palazzo degli specchi descritto da Amitav Ghosh nell’omonimo romanzo.
I monasteri sono centri di preghiera, meditazione e raccoglimento. Ma il seminario di Masoeyein, dove sotto la guida di Wirathu vivono e studiano 2.500 bonzi, somiglia a una centrale di propaganda politica. Alle pareti, le foto che documentano gli orrori del conflitto: monaci assassinati, cadaveri di musulmani bruciati e mutilati, donne violentate. Gli attivisti del 969 distribuiscono sticker con il logo del movimento da incollare sui parabrezza dei taxi e sulle vetrine dei negozi. Novizi imberbi chini sui computer sfornano dvd con gli infuocati sermoni del leader e inondano i social network di slogan bellicosi: «Siamo la risposta all’invasione musulmana»; «L’I slam sta conquistando il mondo».
Il virulento mantra dell’odio di Masoeyein risuona in molte pagode del Myanmar rinfocolando i risentimenti sedimentati in un Paese artificiosamente ritagliato dal colonialismo dove convivono 135 gruppi etnici e una dozzina di eserciti regionali e di guerriglie separatiste. Il messaggio xenofobo di Wirathu e dei suoi accoliti trova ascolto in una popolazione che, ibernata per quasi mezzo secolo dalla dittatura militare, si apre alle opportunità ma anche alle tensioni del mercato: esplosione dei prezzi, inurbamento, competizione.
Wirathu, uscito di prigione nel 2010 con l’amnistia dopo sette anni di reclusione per «incitamento all’odio religioso», sostiene che la difesa della razza birmana è più importante della democrazia. Ossessionato dall’elevato tasso di natalità dei musulmani, è convinto dell’esistenza di un complotto per trasformare il Myanmar in uno Stato islamico: «Se non ci difendiamo» proclama con voce soave su YouTube «finiremo come l’Afghanistan. I musulmani sono gente malvagia: stuprano le nostre donne, bevono la nostra acqua, rubano la nostra terra». La soluzione, secondo il monaco di Masoeyein, è il rafforzamento dell’attuale regime di apartheid verso le minoranze e l’approvazione di una legge che proibisca il matrimonio tra persone di fede diversa.
Non mancano le voci che si levano a stigmatizzare la propaganda fondamentalista del movimento 969. «Non è questo l’insegnamento di Buddha» dice il venerabile Arriya Wuttha Bewuntha, abate del monastero Myawaddy Sayadaw di Mandalay. «Non è questo il cammino della pace e della riconciliazione». Il governo, tuttavia, non ha mai preso le distanze in modo netto dagli insegnamenti di Wirathu, alimentando i sospetti di connivenze tra il monaco e settori dell’establishment militare propensi a sfruttare gli scontri etnici e religiosi per mantenersi al potere.
Quando lo scorso giugno Ashin Wirathu è finito sulla copertina di Time sotto il titolo Il volto del terrore buddista, suscitando l’indignazione dei monaci, il settimanale è stato messo al bando e il presidente Thein Sein è sceso in campo di persona definendo Wirathu un «figlio del Gautama Buddha». L’esercito, onnipresente e dal grilletto facile, non si è certo distinto per sollecitudine nell’impedi- re i pogrom dei musulmani. Persino la leader indiscussa dell’opposizione, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, è stata tiepida nel condannare la violenza religiosa.
«Si avvicinano le elezioni del 2015» spiega il leader del Partito per la democrazia e i diritti umani Kyaw Min «e oggi in Birmania il nazionalismo estremista è una potente carta politica da giocare». Ma è una carta pericolosa, non solo per la zoppicante democrazia birmana. Nello Sri Lanka la minoranza musulmana è nel mirino di un’organizzazione, la Bodu Bala Sena (Forza buddista), che predica l’intolleranza. Nel Sud islamico della Thailandia, dove il conflitto ha già mietuto 6 mila vittime, i bonzi sono armati e i monasteri sono utilizzati come basi dall’esercito. Mentre dall’Indonesia lo sceicco Abu Bakar Basyir, legato ad Al Qaeda e incarcerato per terrorismo, chiama i musulmani birmani alla guerra santa contro i buddisti.
Il fondamentalismo religioso, che dall’11 settembre ha segnato la storia dell’Occidente e del mondo arabo, ha ormai contagiato i Paesi emergenti del Sudest asiatico.