Raffaele Panizza, Panorama 14/2/2014, 14 febbraio 2014
LE 7 VITE DI FABRIZIO
Se si potesse intitolare la stanza di un carcere a un cittadino ancora sotto custodia, questa dovrebbe essere l’aula Fabrizio Corona. Con tanto di busto in bronzo, tatuato, all’ingresso. E una targa con una delle sue frasi celebri: «La galera è brutta, oh; ma se hai le palle te la fai». Opzione scandalosa, d’accordo, ma difficilmente contestabile: la redazione giornalistica voluta dal detenuto Corona e messa in piedi nella casa di reclusione di Busto Arsizio, carcere dove ha trascorso tre mesi prima d’essere trasferito a Opera dove sta scontando una pena che supera i 14 anni (per bancarotta fraudolenta ed evasione), è quasi a pieno regime.
Per accedervi si prende una scaletta angusta, proprio vicino alle macchinette per il caffè. Si supera la sala dedicata alla pittura, con i cavalletti e le tele lasciate a metà. Si passa per la piccola biblioteca e poi, da una porticina, si entra in una stanza con cinque computer Hewlett Packard a schermo piatto, 5 giga di ram, 220 di hard disk. C’è anche un iMac con schermo a 23 pollici, che fa litigare i carcerati smaniosi di aggiudicarselo, simbolo del meglio di quanto il mondo esterno possa offrire. Postazioni dalle quali nove uomini, la maggior parte dei quali dentro per spaccio di droga, scrivono i loro articoli per il sito Vocelibera. net, esperimento unico nel suo genere di portale online redatto dall’interno di una casa circondariale, ideato da Corona e creato dalla Fenice srl (la sua agenzia di pubblicità e sponsorizzazioni, oggi intestata per ragioni fiscali e di opportunità alla madre Gabriella) con la cooperativa Solcoo di Varese.
Tra i tanti che lo odiano, lo vorrebbero in carcere per sempre o condannato a morte addirittura, non ci sono certo Davide, Soimusan, Emanuele, Piero, Alex, Nitti, Issam, Oscar, Cacares: «Questo è il nostro più importante canale di comunicazione con l’esterno» dicono, orgogliosi delle 7 mila pagine viste quotidianamente e dei mille «mi piace» su Facebook. A coordinarli, il giornalista Federico Corona, fratello 25enne di Fabrizio che ogni mercoledì si presenta lì per correggere gli articoli che raccontano storie di vita carceraria, punti di vista sull’attualità, dolori e gioie di ogni giorno.
Barbara Trebbi, direttrice di Solco, ricorda così l’incontro con Fabrizio: «Mi colpì il suo modo di ragionare: per lui, il carcere era un’azienda come un’altra, cui andava semplicemente rifatta l’immagine» dice, riferendosi alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che un anno fa, proprio in seguito a una denuncia partita da Busto, condannava l’Italia per il trattamento «disumano e degradante» subito da alcuni detenuti. E disumana era apparsa anche la reazione di Corona alla reclusione: prima chiede di parlare con la responsabile del settore trattamentale, Valentina Settineri. Poi con il direttore del carcere Orazio Sorrentini. Ancora in sella, nella sua testa, a una specie di decentrata azienda, come se nulla fosse accaduto: niente condanna a cinque anni a Torino per estorsione aggravata ai danni di David Trezeguet, niente fuga in Portogallo, arresto dell’Interpol ed estradizione in Italia. Dietro le sbarre, monta il suo solito show. Ottiene d’incontrare lo staff al completo. Riceve i clienti di fiducia cui chiede fondi per le nuove idee. Qualcuno versa denaro. Altri acconsentono a esternalizzare in carcere parte del lavoro di packaging dei propri prodotti. «È nato così Esternamente» conclude Trebbi. «Un progetto che coinvolge 30 persone e dal valore di circa 100 mila euro».
Nella sede di Fenice srl, 400 metri quadrati in un cortile elegante di corso Como a Milano, i collaboratori più stretti ripercorrono quei giorni. Armando Limone, il suo braccio destro, ammette: «È riuscito a mettere in piedi un’attività pure dalla galera». Anche perché l’intuizione non è da poco: «Abbiamo costruito una piccola rete locale fatta d’immagini e pagine Wikipedia, che i detenuti possono consultare con la sensazione di navigare davvero su internet» spiega Christian Contessa, che si occupa di tutti i progetti internet. «L’idea, ora, è offrire il prodotto a tutte le case di pena italiane e non solo». Un bacino di 206 istituti penitenziari e 65 mila reclusi. Senza contare amici e familiari: «Lavoriamo anche a un prodotto di telefonia via internet, una sorta di Skype per comunicazioni con l’esterno». Da quando è stato arrestato, il 25 gennaio del 2013, Fabrizio Corona non ha mai mollato le redini della sua creatura. Da 30 collaboratori la struttura è scesa a 10. Le decine di locali che pagavano 8 mila euro per un’ospitata sono orfani (anche se negli ultimi tre mesi sono state vendute 3 mila magliette con i suoi tatuaggi). Vecchi amici e creditori battono cassa. Ma nonostante i 4 milioni di fatturato dei tempi d’oro siano lontani, il lavoro va avanti.
«Un anno fa tutti avrebbero scommesso sulla nostra fine. Non c’è soddisfazione più grande che chiudere un contratto e farglielo sapere tramite gli avvocati: non possiamo deluderlo, e lottiamo per la causa» dice Assunta De Prisco, energica 33enne che quattro anni fa Corona ha strappato al suo lavoro di responsabile sponsorizzazioni per un grande promoter di concerti live. Oggi si occupa del cuore dell’attività aziendale: la pianificazione di campagne di comunicazione per le aziende sotto la guida invisibile del capo, che le invia due-tre lettere a settimana: pagine scritte fitte, evidenziate in verde, giallo e rosa, piene di indicazioni pratiche, schemi, cifre, richieste di preventivi e di conti aziendali, forme criptate di incentivo («Tu devi essere cattiva!», «Dimostrami che non sei un tamagochi!»), sfoghi verso sentenze che considera ingiuste, rivalse da consumare subito o da gustare fredde: «Questi non si rendono conto che prima o poi esco» sibila ogni tanto. E poi allusioni continue a Lapo Elkann, accusato nel libro Mea culpa (Mondadori), di essere il regista occulto della sua condanna a Torino: «Nessun giornale ha avuto il coraggio di rilanciare le mie accuse» ripete ai suoi interlocutori.
Ma gran parte delle energie sono rivolte a gestire il business dei clienti. Chiede di tenere vivo il suo profilo Twitter «perché i giornalisti sono lì, mentre su Facebook ci sono solo le donne che mi vogliono portare a letto». E dà indicazioni perentorie su Metamorfosi, il documentario girato fino a poche settimane prima dell’arresto (a firmarlo, oltre a Jacopo Giacomini, anche il regista di Gomorra Matteo Garrone) che ne raccontava il faticoso processo di redenzione. Infine le richieste personali: un paio di Nike air, le magliette American Apparel e Balmain, soldi da spedire a Santo Domingo alla famiglia di un carcerato e l’invio urgente di un dentista: «Mi raccomando fammi portare i denti che mi mancano, che non riesco più a mangiare» scrive, riferendosi a tre impianti odontoiatrici che gli si sono rotti. «Le responsabilità sono tante e non posso neppure dirgli che sono stanca, perché lui mi risponderebbe: “Oh, non lamentarti, hai la libertà”» si sfoga Assunta.
Libertà che Corona sta tentando di riottenere contro uno sciame tellurico di sentenze che si sommano e s’intrecciano, difeso dai penalisti Ivano Chiesa e Gianluca Maris. È dello scorso 8 gennaio il pronunciamento della Corte di cassazione che l’ha condannato a un altro anno per una mancata dichiarazione dei redditi risalente al 2004. Mentre tuonano all’orizzonte altri processi per diffamazione, tra i quali una possibile azione promossa dai legali di Lapo Elkann, che stanno valutando se le accuse mosse verso il loro assistito possano o meno dare adito a una richiesta danni. Intorno a lui, intanto, s’è già mossa la macchina per alleviargli una pena ritenuta sproporzionata: ci sta provando don Antonio Mazzi, che ha già fatto sapere di volerlo portare nella comunità Exodus: «L’ho incontrato nel carcere di Opera molte volte, e l’ho trovato cambiato. Il magistrato dovrebbe accorgersene ed essere più clemente» dice il sacerdote, che parla anche di un Fabrizio spesso depresso, un uomo che si era convinto di essere onnipotente ma consapevole «di essersi comportato da pirla», e di un «personaggio ormai definitivamente smontato».
È proprio di questi giorni la richiesta avanzata dalla difesa per riconoscere a Corona l’applicazione dell’istituto della continuazione, un meccanismo grazie al quale i diversi processi e le diverse condanne potrebbero essere compattati portando anche al dimezzamento della pena (risultato ottenibile grazie anche al decreto Cancellieri, che prevede 75 giorni di sconto ogni sei mesi scontati). In caso contrario, si profilerebbe addirittura un esposto alla Corte europea dei diritti dell’uomo o una richiesta di grazia: la lettera più importante scritta da Corona non era quella indirizzata a Belen Rodriguez. Ma potrebbe arrivare, presto, sulla scrivania del presidente della Repubblica.