Stefano Cingolani, Panorama 14/2/2014, 14 febbraio 2014
CONGIURA A PALAZZO
La cena delle beffe si consuma la sera del 3 novembre 2011, a Cannes, quando Angela Merkel chiede a Silvio Berlusconi di arrendersi nelle mani del Fondo monetario internazionale e riceve un secco no. La campagna d’Italia, però, comincia molto prima. Una realtà diversa dalla vulgata prevalente emerge dai ricordi di molti protagonisti di quel pezzo di storia recente. E chi, visto da vicino, sembra un gran burattinaio, in una prospettiva diversa diventa un burattino.
Il filosofo tedesco Jürgen Habermas, considerato una delle menti più lucide e anticonformiste della sinistra, ha chiamato quel che è successo in Europa «a quiet coup d’etat», un tranquillo colpo di Stato. In 9 mesi sono stati decapitati ben cinque governi: Irlanda, Portogallo, Grecia, Italia e Spagna. La partita più grande e azzardata, però, s’è giocata proprio attorno alla sorte di Berlusconi, l’unico leader a cadere non per mano degli elettori, ma in un gioco di palazzo. José Luís Rodriguez Zapatero ha narrato la sua sconfitta in un volume non ancora tradotto (Il dilemma, 600 giorni di vertigine). Alan Friedman ha raccolto in un libro, intitolato Ammazziamo il Gattopardo (Rizzoli editore), le testimonianze di Romano Prodi, Carlo De Benedetti e soprattutto di Mario Monti il quale ammette che Giorgio Napolitano gli ha lanciato «un segnale» già alla fine del giugno 2011. Panorama è in grado di raccontare come andarono le cose, incrociando altre fonti che portano univocamente a una conclusione evidente: tutto è maturato in quei «troppi conciliaboli con l’estero», così li chiama Cesare Geronzi, un banchiere che conosce bene le stanze del potere. I passaggi essenziali sono: la guerra dello spread, la lettera della Bce, la delegittimazione di Berlusconi anche facendo crescere in parallelo l’alternativa Monti, il disegno di Napolitano.
L’ATTACCO AL DEBITO SOVRANO. Quando la Grecia ammette che il suo bilancio pubblico è taroccato, si fa strada la convinzione che l’euro sia costruito sulla sabbia. Il 2 maggio 2010 viene annunciato un pacchetto di aiuti pari a 110 miliardi; il 6 la Banca centrale europea, riunita a Lisbona, dice che non ha deciso alcun intervento sui mercati dei titoli di stato e nel pomeriggio l’intera area euro comincia a traballare. Il 28 e 29 novembre, a Deauville, il direttorio franco-tedesco concorda la creazione di un fondo salva stati. I giornali ironizzano sulla coppia Mer-kozy. La speculazione attacca Irlanda e Portogallo, ma picchia anche su Spagna e Italia. A quel punto, la Deutsche Bank comincia a mollare. Dalla fine del 2010, in soli sei mesi, si libera di quasi tutti i Btp italiani: 7 miliardi su 8. La notizia viene resa pubblica il 26 luglio dal Financial Times, ma è scritta nel bilancio approvato il 30 giugno. E Db non è la sola a vendere, l’effetto gregge spinge tutti lungo la stessa strada. C’è stata una direttiva della Bundesbank? Berlusconi ne è convinto, e non è il solo. La banca centrale tedesca smentisce, ma il sospetto resta fondato: Josef Ackermann, il capo della Deutsche Bank, veniva ritenuto in Germania una sorta di «cancelliere ombra». Figura carismatica, presidente del World economic forum di Davos e nel comitato esecutivo del Bilderberg group, cioè i club dei potenti dei quali fa parte da tempo anche Monti, il banchiere di origine svizzera negli anni precedenti ha fatto incetta di subprime e di titoli marci americani. Stefan Baron, suo ex consigliere e portavoce, in un libro pubblicato a Zurigo e intitolato Rimorso tardivo, spiega che quando suona l’allarme ellenico entra in paranoia e pensa solo a salvare la pelle.
La mossa ha un effetto benefico sul sistema Germania. L’esposizione tedesca verso l’Italia scende da 164 a 125 miliardi entro il 31 giugno 2012. Il valore dei nostri titoli pubblici di fronte a una offerta molto superiore alla domanda va sotto il 70 per cento, e si alzano gli interessi: erano il 4,3 su un valore facciale cento, ma calcolati su 70 diventano il 6,3-6,5 per cento. Contemporaneamente corrono verso il disastro anche il debito greco, spagnolo, del Portogallo e dell’Irlanda. I Bund vengono considerati un bene rifugio e Berlino riesce a collocarli garantendo un interesse dell’1 per cento, invece che del 3,3 precedente.
In quell’autunno 2010, Berlusconi è inquieto per l’offensiva mediatico-giudiziaria contro di lui e per il clima politico interno. Il 14 dicembre evita, per un soffio, di cadere per mano di Gianfranco Fini. Lo sgambetto ha ispiratori esterni, non solo alla corte renana, ma nel cuore dell’impero? L’amministrazione Obama ha usato Nancy Pelosi come una sorta di plenipotenziaria per gli affari italiani e la speaker della Camera dei rappresentanti ha trovato la sua sponda italiana nel presidente della Camera dei deputati, Fini. Il leader di Alleanza nazionale ha cercato fin dal lontano 1995 di farsi sdoganare, un’operazione culminata negli anni in cui ha retto la Farnesina, ma allora prevaleva su tutti il rapporto personale di Berlusconi con George W. Bush. Con i democratici le relazioni sono subito molto più tese e Fini coglie l’occasione. Il suo viaggio a Washington nel febbraio 2010 viene decantato in Italia come il segnale di una attenzione speciale. In estate nasce Futuro e libertà: Fini tenta di portare con sé 55 deputati, ma l’operazione è sventata.
In molti, a partire da Giuliano Ferrara e Renato Brunetta, consigliano a Berlusconi una svolta «sviluppista» come la chiama Il Foglio. Il 30 gennaio 2011 il premier pubblica una lettera sul Corriere della sera nella quale chiede «una frustata al cavallo dell’economia». «Riecco il triangolo spesa-deficit-debito» commentano a Bruxelles. Giulio Tremonti punta i piedi: non si possono allargare i cordoni della borsa. La Banca d’Italia fa sapere che la spesa pubblica deve scendere di cinque punti rispetto al prodotto intero lordo. «Bisogna tornare sul livello dell’inizio dello scorso decennio» dice Draghi in dirittura d’arrivo al vertice della Bce. «Chi fa la politica economica italiana?» chiede irritato il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaüble al suo consigliere Jörg Asmussen, che ha preso un master alla Bocconi. Mentre i mercati ballano la danza sfrenata dei tassi.
Il clima s’arroventa in vista delle amministrative. In maggio si vota tra l’altro in Sicilia, a Torino, a Bologna, a Napoli, a Milano e il centrodestra sente puzza di bruciato. Sarà una débâcle soprattutto nel capoluogo lombardo che, il 29 maggio, passa dopo vent’anni alla sinistra con Giuliano Pisapia. «L’abbiamo espugnato» esulta Nichi Vendola. Il 31 tutti i riflettori si spostano su Draghi che officia l’ultima messa cantata all’assemblea di Bankitalia. Il governatore, già presidente in pectore della Bce, vuole «una manovra tempestiva, strutturale, credibile agli occhi degli investitori internazionali» per allentare le tensioni sullo spread. E chiede di portare il bilancio pubblico «senza indugi al pareggio». Insomma, ci sono già i punti salienti della lettera che verrà recapitata in agosto a Berlusconi.
IL DIKTAT DELLA BCE. Il 4 agosto 2011 si riunisce nell’Eurotower di Francoforte il consiglio della Banca centrale e dà il via libera a un gesto senza precedenti: scrivere ai governi di Roma e Madrid e propinare l’amara medicina. Salta così la conclamata autonomia: la Bce non fa più solo politica monetaria, ma anche politica fiscale, come sottolinea Paul De Grauwe della London school of economics. Il mix di pillole da trangugiare, però, viene lasciato alle banche nazionali. Per la Spagna la purga riguarda soprattutto i salari. Ricorda Lorenzo Bini Smaghi, allora membro dell’esecutivo della Bce, che Jean-Claude Trichet insisteva sulle riforme strutturali e la Banca d’Italia sul pareggio: quel che Draghi aveva chiesto due mesi prima. La distanza tra il Btp a dieci anni e il Bund tedesco viaggia sui 350 punti base. Venerdì 5 agosto Tremonti riceve una telefonata da Palazzo Chigi. Il presidente del Consiglio lo convoca in fretta, senza dirgli il perché. Nell’ufficio trova Gianni Letta e Brunetta con la faccia scura. Il capo del governo gli porge un foglio con l’intestazione della Bce. Il ministro dell’Economia sbianca, comincia a leggere e, giunto al punto due, comma a, fa un salto: «L’obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell’1 per cento nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa» recita a voce alta. Tremonti arriva fino alle firme in calce di Draghi e Trichet, poi aggiunge: «La data è sbagliata». «Ma no è giusta, oggi è il 5». «Non intendo quella, ma la data per il pareggio del bilancio: è anticipata di un anno».
Il premier spagnolo Zapatero riceve la lettera lo stesso giorno, la ritiene «oltraggiosa» e la chiude nel cassetto. Le Cortes, il parlamento, vengono tenute all’oscuro e l’opinione pubblica spagnola apprende della sua esistenza solo a settembre, quando il Corriere della sera pubblica il testo della lettera all’Italia. Scoppia un putiferio in piena campagna elettorale.
A Roma, invece, la bagarre comincia immediatamente. Tremonti parla di «una pugnalata alle spalle» e sospetta di tutti. Domenica 7 agosto Palazzo Chigi invia un fax a Francoforte con il quale accetta la stretta di bilancio. Lunedì la Bce compra Btp e Bonos, con l’opposizione della Bundesbank. Zapatero non fa una piega: «Non ero disposto ad adottare nuove severe misure sociali prima del voto» scrive. L’attacco si concentra sul governo italiano, costretto in fretta e furia a varare il sofferto decreto di Ferragosto: una botta da 45,5 miliardi tra tasse e tagli, con tanto di anticipo al 2013 del pareggio del bilancio. La Lega rifiuta la riforme delle pensioni, una delle richieste principali della Bce. Lo spread sale ancora, e non è finita. Napolitano conosceva in anteprima la lettera? È uno dei sospetti ricorrenti nei ricordi dei protagonisti, ma se fosse vero allora la trama sarebbe davvero diabolica.
L’UOMO DI DAVOS. Il lavorio per preparare il dopo Berlusconi si è fatto fittissimo durante tutto il mese di giugno. Il telefono del Quirinale squilla in continuazione: chiama la Casa Bianca, chiama l’Eliseo, chiama soprattutto Frau Merkel. I nomi ricorrenti sono quelli di Monti e di Corrado Passera. In molti si danno da fare, ricevendo i potenziali sostituti e vagliando i possibili ministri. Il professore bocconiano è una figura che incombe da tempo. Berlusconi ricorda un’intervista di Francesco Cossiga del 2008: il presidente emerito della Repubblica spiegava come la sinistra sarebbe riuscita a farlo sostituire proprio dal professore, l’ospite fisso a Davos, al Bilderberg, alla Trilateral, che garantiva i vertici dell’Unione europea e non solo quelli, anche l’intreccio bancario-industriale che controlla il Corriere della sera, a cominciare dalla Fiat.
Con Alan Friedman Romano Prodi ammette di aver parlato a Monti a fine giugno 2011, dandogli un consiglio solo apparentemente bonario: «Non puoi far nulla per farti nominare, e non puoi nemmeno rifiutare» dice. Poi conclude: aspetta che lo spread salga a 300 punti. Carlo De Benedetti ricorda di averne discusso con il professore in agosto, in vacanza a St. Moritz, e di avergli suggerito il timing giusto: settembre va ancora bene, dicembre sarebbe già troppo tardi. Lo stesso Monti conferma più colloqui con Napolitano, il quale gli fa capire di tenersi pronto. Ma anche Passera gioca le sue carte e consegna a Monti un programma che, alla quarta stesura, arriva a ben 196 pagine. Nella panoplia di misure, spicca un’imposta patrimoniale sugli immobili del 2 per cento (prima casa esclusa), per raccogliere 85 miliardi. Il professore bocconiano è la prima scelta del presidente della Repubblica. L’amministratore delegato della Intesa Sanpaolo viene spinto da Giovanni Bazoli, presidente della stessa banca, che partecipa a incontri sul «Piano di crescita sostenibile» presentato nel frattempo anche al Quirinale.
Oggi Napolitano replica con tono piccato alle rivelazioni: «Le confidenze personali e l’interpretazione che si pretende di dare in termini di complotto sono solo fumo». Friedman al Tg5 parla di «incongruenze» e nel terzo capitolo del libro racconta la sua versione di quello che chiama «il piano del presidente», salvatore della patria per conto dell’Europa; anche se gli spaghetti in salsa renana risultano indigesti.
Ma perché tutto precipita tra giugno e luglio? Sul fronte interno, le divergenze fra Tremonti e il governo del quale fa parte si fanno incolmabili tanto che il ministro il 26 giugno minaccia le dimissioni. Il 9 luglio, poi, Berlusconi subisce un vero colpo gobbo: la Corte d’appello di Milano sentenzia che la Fininvest paghi 560 milioni alla Cir di Carlo De Benedetti. «È un tentativo di cancellare le nostre aziende» reagisce Marina Berlusconi. Il Cavaliere, dunque, si sente accerchiato e indebolito su tutti i fronti. Finché il caos di agosto dà un colpo di acceleratore: il debito americano perde la tripla A, i mercati sono in agitazione e il governo italiano litiga sulle misure d’emergenza.
Un’altra data chiave, secondo tutte le fonti consultate, è il 3 settembre a Cernobbio. All’annuale Forum Ambrosetti sulle rive del Lago di Como, interviene in videoconferenza Napolitano il quale esordisce: «Saluto cordialmente l’amico Monti». Secondo Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, il professore era già visto come l’uomo cui affidare il dopo Berlusconi e gli ospiti vanno già a congratularsi con lui. Intanto, però, a Berlino gira voce che l’Italia stia trattando l’uscita dall’euro. E suona l’allarme rosso. Bini Smaghi lo ricorda nel suo libro Morire d’austerità, ma precisa: «Berlusconi, per quanto ne so, non ha mai cercato una exit strategy nemmeno dietro le quinte».
Per l’economista Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo, l’istituto per lo studio della congiuntura, sono già stati intavolati negoziati segreti. Secondo alcuni funzionari europei è una minaccia preventiva, del tipo: che succede se decidiamo di lasciare la moneta unica? La Banca d’Italia, intanto, prepara le misure tecniche per una eventuale chiusura dei mercati.
LA CADUTA. Il 20 ottobre Angela Merkel chiama il Quirinale, che oggi nega che in quella conversazione si sia parlato di cambio del governo. La frase esatta, in realtà, è: «Presidente, lei deve fare tutto ciò che è in suo potere per promuovere riforme più aggressive». A buon intenditor… Tre giorni dopo, durante una conferenza stampa a Bruxelles, di fronte alla domanda: «Credete che Berlusconi rispetterà gli impegni?» la Merkel e Sarkozy si scambiano sorrisetti derisori. Il 26 ottobre Napolitano non firma il decreto con le nuove misure chieste dalla Ue e vuole un disegno di legge perché si affrontino questioni delicate come l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Fatto sta che Berlusconi si presenta al G-20 di Cannes «a mani vuote». Quel vertice, secondo Tremonti, «viene concepito con due obiettivi di fondo: impedire il referendum greco proposto il 31 ottobre e mettere l’Italia con le spalle al muro. Quanto a Zapatero, la sua sorte era segnata».
Monti al posto di Berlusconi viene dato per certo già a Cannes, scrive l’ex premier spagnolo. La Merkel vuole che vengano affidati al professore i pieni poteri sull’economia. Che la Cancelliera coltivi il vizietto della politica interna italiana lo dimostrano altri episodi successivi. Nell’aprile 2013 invita Napolitano a evitare scosse fino alle elezioni tedesche. E dopo averle vinte, il 27 settembre, avrebbe affermato (così riferisce l’economista Nouriel Roubini) che a questo punto sarebbe meglio sciogliere le Camere visto che Enrico Letta temporeggia soltanto.
Torniamo alla fatidica cena ufficiale di giovedì 3 novembre 2011. Attorno al tavolo rettangolare siedono Barack Obama, la Merkel, Berlusconi, Zapatero, George Papandreou, i ministri dell’economia, Barroso e Christine Lagarde per il Fondo monetario internazionale. «C’era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano» testimonia il premier spagnolo. «La Merkel mi propose subito di accettare una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro dal Fmi, mentre altri 85 sarebbero andati all’Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no». Il tiro incrociato si sposta, con momenti di vera tensione, tra seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la Seconda guerra mondiale, viene fuori di tutto. «Ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola, di Berlusconi e di Tremonti. Entrambi allontanano il pallone dall’area, con Berlusconi che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori per suicidarmi».
La Cancelliera va su tutte le furie, anche perché non è il primo rifiuto. Berlusconi si è opposto alla Tobin tax sulle transazioni finanziarie e alle misure contro il buco nell’ozono, che avrebbero imposto pesanti oneri sull’industria italiana. Ma lo scontro più duro riguarda il fiscal compact, il patto fiscale che deve consentire alla Bce di usare l’Esm (European stability mechanism) detto anche «salva stati». Si tratta di riportare il debito pubblico al 60 per cento del Pil in vent’anni, tagliando un ventesimo dell’eccedenza: per l’Italia vuol dire 50 miliardi, anno dopo anno.
Ricorda Berlusconi: «Feci presente che non era realistico, e che ogni paese doveva essere considerato per la sua originalità. Discutemmo a lungo ma non si convinsero, quindi osai esercitare il diritto di veto che ogni paese ha a sua disposizione ma l’Italia non aveva mai utilizzato. Organizzai immediatamente una riunione con il primo ministro lussemburghese, Jean-Claude Juncker, il leader dei ministri delle Finanze dell’Eurogruppo. Di mio pugno scrissi le due norme (tenere conto della ricchezza complessiva del nostro Paese e non solo del debito pubblico, e valutare l’economia sommersa nel calcolo del pil) da inserire nella dichiarazione che il Consiglio votò e approvò, consentendo al nostro Paese di scampare un pericolo importante, perché con le clausole di salvaguardia avremmo dovuto rimborsare 15 miliardi l’anno anziché i 50 previsti».
Come quando la Dieta imperiale a Ratisbona decretava la sorte dei principi, così i vertici dell’Unione europea condannano chi non si è allineato. La successione temporale è impressionante: l’8 novembre viene messa la fiducia sul rendiconto dello Stato, che passa con appena 308 voti, il 9 Napolitano nomina Monti senatore a vita mentre ad Atene si dimette Papandreou, il 12 tocca a Berlusconi, il 13 arriva Monti a Palazzo Chigi, il 20 Zapatero viene sconfitto alle urne. «Ci siamo trovati nel novembre 2011 con una pressione incredibile del capo dello Stato, dell’opposizione, della magistratura, dei giornali, di tutti i giornaloni italiani» rammenta l’ex presidente del Consiglio. Le defezioni si moltiplicano e il Popolo della libertà si trova con solo due deputati di maggioranza: «Ci fu autorevolmente confidato» rivela Berlusconi «che presto altri deputati sarebbero passati al gruppo misto. Il presidente Napolitano insistette che lasciassimo prima di essere sfiduciati. Non avevamo altra scelta. Fummo costretti a dimetterci pur nella consapevolezza che nulla avevamo sbagliato e che i conti pubblici erano assolutamente a posto».
Lo spread, schizzato a 574 punti un mese prima, si sgonfia. Una volta tagliate le teste, la Bce abbassa i tassi d’interesse e salva le banche con il prestito straordinario in due tranche fino a mille miliardi di euro. Ma è solo una tregua. Tanto che il differenziale dei titoli pubblici risale a quota 528 nell’estate del 2012. Napolitano conta di far guidare a Monti un vero gabinetto di larghe intese (vecchio pallino politico) con i tre leader di partito come suoi vice (con Gianni Letta per il Pdl e Pier Ferdinando Casini per l’Udc). Pier Luigi Bersani, che vorrebbe le elezioni, rifiuta.
La formula, così, diventa tecnica e l’altro personaggio forte accanto a Monti diventa Passera, ministro dello Sviluppo. Il governo applica subito l’austerità, riforma le pensioni, anticipa il pareggio del bilancio, fa approvare dal Parlamento il fiscal compact senza clausole di salvaguardia. Protesta Berlusconi: «Hanno approfittato della mia assenza (era in Africa, ndr), ma siamo stati costretti a votarlo, sennò avremmo fatto cadere il governo tecnico, apriti cielo! E costretti a votarlo così com’era prima del mio intervento». Il 25 gennaio 2012, però, lo stesso leader di Forza Italia ottiene che la Camera voti una mozione per negoziare con riferimento «ai fattori rilevanti per la riduzione del debito». Il 19 luglio viene quindi approvato un ordine del giorno che «impegna il governo a considerare il fiscal compact nella sua interezza». Ora è un lascito per il semestre italiano di presidenza della Ue.
La nuova ondata di ricordi non illumina ancora tutti i punti oscuri di quel fatidico periodo. Ma si può senz’altro concludere che il rischio Italia esisteva davvero, però «è stato ancora una volta enfatizzato per fini interni» come sostiene Geronzi. Se la Grecia poteva diventare una Lehman Brothers, l’Italia era comunque troppo grande per fallire, eppure è stata ingaggiata una prova di forza, facendo correre rischi altissimi all’intero sistema. L’euro non si è salvato nel novembre 2011, ma soltanto il 26 luglio 2012 quando Draghi ha annunciato che la Bce avrebbe fatto «tutto il necessario», cioè quando è caduto il tabù del prestatore di ultima istanza. Quanto al ribaltone italiano, è maturato nel quadrilatero composto da Cancelleria tedesca, Quirinale, Bce e Bankitalia. Lo stesso che ha dato credito al governo Letta e adesso si pente. Lo stato d’eccezione non è ancora finito.