Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 14/2/2014, 14 febbraio 2014
IN 5 ANNI BRUCIATI 134 MILIARDI
Rischio desertificazione industriale. Dal 2008 il sistema produttivo italiano ha lasciato sul terreno ricavi aggregati per 134 miliardi di euro. Ha iniziato a sperimentare una preoccupante tensione finanziaria. E, soprattutto, ha perso capacità di generare ricchezza. Prima della crisi cento euro di ricavi producevano due euro di utili, puliti puliti. Cinque anni dopo – anche a causa di un fisco che con la sua componente fissa (la famigerata Irap) amplifica la sua capacità distruttiva durante la recessione – cento euro di fatturato "generano" 50 centesimi di utili.
La recessione, innescatasi nel 2008 negli Stati Uniti con il fallimento di Lehman Brothers e diffusasi negli anni successivi nei sistemi industriali nazionali di tutto il mondo con una gradualità pari soltanto alla inesorabilità del contagio, sta producendo effetti profondi. Che rischiano di condizionare in misura drastica la fisiologia del nostro tessuto industriale nei prossimi anni. Adottando il punto di vista del medico che considera l’evoluzione della patologia, la cartella clinica del paziente-Italia delineata dalle rilevazioni e dalle stime effettuate da Prometeia e da Intesa Sanpaolo restituisce un profilo complesso.
Questo vale per i ricavi aggregati. Ma vale soprattutto sotto il profilo della redditività. Nel 2008 il giro d’affari complessivo dell’industria italiana è stato pari a poco meno di 907 miliardi di euro. Nel 2009 è sceso a 741 miliardi. Nel 2010 c’è stata una risalita a 806 miliardi. L’anno successivo il recupero è continuato fino a toccare quota 843 miliardi. Nel 2012 è tornato a scendere a 798 miliardi, per poi volgere ancora verso il basso nel 2013, quando si è attestato a poco più di 774 miliardi di euro. Dunque, dall’inizio della recessione il sistema industriale italiano ha bruciato fra i 133 e i 134 miliardi di euro: una cifra enorme. Soprattutto se si considera che la prevalenza delle imprese del nostro Paese - con una strategia abbastanza uniforme, dalle piccole aziende artigianali ai grandi gruppi internazionalizzati - ha cercato di conservare il più possibile i ricavi, rinunciando spesso a difendere i margini.
Una logica comprensibile, dato che grazie ad essa si mantengono i posti di lavoro e si guadagna tempo, in attesa che magari le condizioni di mercato mutino. Una logica che, però, rischia di indebolire finanziariamente, in misura strutturale, la natura delle imprese italiane. Basta considerare che, nel 2008, i debiti finanziari della nostra industria erano pari a 265 miliardi di euro. Cinque anni dopo, nel 2013 - per effetto del razionamento del credito e anche della minore domanda di fidi da parte di imprese che devono affrontare l’emergenza di un mercato interno drammaticamente asfittico - i debiti finanziari sono aumentati di poco, a 270 miliardi di euro. Dunque, nel 2008 il rapporto fra ricavi e debiti era pari a 0,29. Cinque anni dopo, nel 2013, questo rapporto è salito a 0,35. Al di là della qualità dei debiti finanziari, appare evidente che - a fronte di un calo drastico del fatturato aggregato e di un lieve incremento dei debiti - nel corpaccione dell’industria italiana vi sia una crescente tensione finanziaria.
Dunque, l’industria italiana sembra avere sviluppato una patologia sistemica. Qualunque indicatore mostra di volgere al peggio. I ricavi crollano. La condizione finanziaria peggiora. E - per un oggettivo responso del mercato o per una scelta strategica ultradifensiva - non si riesce più a fare margini. Basta osservare quanto rilevato sempre da Prometeia e da Intesa Sanpaolo: nel 2008 gli utili generati dall’industria italiana nel suo complesso erano pari a 17,8 miliardi di euro. Cinque anni dopo, tre quarti di essi si sono polverizzati: il risultato finale aggregato è di 4,1 miliardi di euro. Se si osserva l’indice ottenuto pesando gli utili con i ricavi, la fotografia è impietosa: cinque anni fa questo indice valeva 0,02. Questo significa che, allora, cento euro di fatturato producevano due euro di utili. Nel 2013, questo indicatore precipita a 0,005. Ciò significa che cento euro di fatturato generano 50 centesimi di utile.
Questo radicale impoverimento è il risultato di un combinato disposto micidiale: oltre al responso del mercato e alla scelta strategica delle imprese italiane di giocare in difesa privilegiando i ricavi a scapito dei margini, c’è anche l’elemento fiscale - maledizione italiana - che con la sua componente fissa (per esempio, l’Irap) incide ancora di più quando le imprese si trovano nel pieno della recessione.