Luigi Galella, Il Fatto Quotidiano 14/2/2014, 14 febbraio 2014
LA VOCE DI DANTE NELLA CAVITÀ DI CARMELO
La voce sembra farsi cavità ampia e buia, imbuto tenebroso. Nell’approssimarsi all’oggetto, lo accoglie in sé. Nell’entrare nell’Inferno dantesco si trasforma nel contenitore cupo e severo di quel mondo. Non veicolo linguistico, ma vaso che lo accoglie. Ciò che racconta è già tutto lì, nel possente recipiente sonoro che plasma le parole. La voce è il significante, che abbraccia, carezza e strapazza i significati, che gli capitano sotto tiro, con l’intento di rompere ogni rapporto causale, logico e sintattico, prima ancora di piegarsi a un senso, che segue.
In prima serata i “Divini Canti” (Rai5, mercoledì, 21.15) di Carmelo Bene è un’esperienza straniante, poco televisiva, perlomeno della tv che pratichiamo abitualmente. Lo sarebbe stato anche alcuni anni fa, ma adesso lo straniamento è radicale e la rottura con il contesto è insanabile. In tutti gli altri casi ci verrebbe da dire che la responsabilità è soggettiva: se ci si muove marciando contro mano la colpa non è di chi ti viene addosso. Nel caso di Bene, la cui arte teatrale si indirizza contro il verso che la storia ha preso, e oggi ci appare lontano, lontanissimo, ci viene da dire che la responsabilità è della storia.
ABBIAMO riascoltato e rivisto l’interpretazione della Divina Commedia, intervallata dalla voce adolescenziale di sua figlia Salomè – che gli fa da felice contraltare –, che legge dei passi del diario del padre. Tra i canti, i più noti dell’Inferno: il V (Paolo e Francesca), il XXVI (Ulisse) e il XXXIII (il conte Ugolino). Fu invitato a recitarli dal sindaco di Bologna, Renato Zangheri, un anno dopo la strage della stazione. Bene appare sorpreso e lusingato e lo annota: a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, aveva una grafia chiara e ordinata. La sua voce-corpo, la phonè, non accompagna i racconti di Francesca, Ulisse o Ugolino in una dizione ben declamata, ma li aggredisce. Perché la lettura di un testo poetico può sterilizzare i significati o risvegliarli. Carmelo tiene le parole per il collo e le scuote, per farle rivivere. Così, quando recita il canto di Ulisse lo fa in una gradazione ascendente, che culmina con il verso “e la prora ire in giù”, connotandosi di echi rabbiosi e disperati, per la punizione divina al “folle volo”. E la voce-antro diviene barca che s’inabissa e mare che l’ingoia.
Il documentario si apre con le immagini della strage del 2 agosto 1980. Da allora sono trascorsi 34 anni e quasi tutto si è trasformato. Anche nell’arte teatrale, che negli anni ‘70 vedeva in scena in Italia Fo, Gassman, Eduardo e Bene. Da allora il turbocapitalismo ha soffiato forte, spazzando via molti valori, trasferendoli nel calderone insaziabile del mercato. Bene, che amava il paradosso, era perfino “apparso alla Madonna”, e già in vita inveiva contro quella che considerava la cosmica imbecillità dei tempi. Ma era solo l’inizio. Oggi di lui ci rimane la voce, che dobbiamo custodire come una preziosa reliquia di quel tempo. Ma anche gli scritti e i diari, meno noti. Apprendiamo così che dopo che ebbe declamato la “Commedia” sulla Torre degli Asinelli un uomo, parente di una vittima, lo avvicinò. Lui pensava che volesse ringraziarlo per il denaro che aveva donato. Ma si sbagliava: voleva dirgli grazie per aver recitato Dante, per loro.