Mario Ajello e Nino Bertoloni Meli, Il Messaggero 14/2/2014, 14 febbraio 2014
SUBITO LA SCOSSA: JOBS ACT E BATTAGLIA SUI VINCOLI UE
GLI SCENARI
ROMA Matteo Renzi non sta ancora a Palazzo Chigi, ma sta già preparando la renzizzazione dello stile («Saremo l’esecutivo dell’ambizione smodata»), della politica neo-decisionale e neo-decisionista («Non è vero che nella stanza dei bottoni non ci sono i bottoni. Sennò perché ci andrei?») e del metodo di governo. «Farò come sempre. Alzo il telefono - così ha detto ieri ai suoi del cerchio magico - e mi organizzo il viaggio da solo». Il viaggio nelle cancellerie europee è da subito una delle priorità del premier in arrivo. Siccome «il toro va preso per le corna», come Matteo non fa che ripetere in queste ore fatali, la battaglia per superare il vincolo del 3 percento nel rapporto deficit-pil - «Solo così possiamo ridare fiato all’Italia» - battendo i pugni sul tavoli di Bruxelles e di Berlino è quella su cui Renzi è deciso a giocarsi tanto. Sa che non sarà facile. Ma sa anche che su questo «dovremo andare avanti come tori» - ed è confermato per ora il suo viaggio a Bruxelles per la prossima settimana - perché i cittadini si sentono strozzati dal rigorismo «stupido» e l’atteggiamento della Germania è quanto di meno popolare quaggiù. Ecco, un modo con cui il Palazzo (Chigi) prova a entrare in sintonia con il Paese (reale). In questa chiave, ossia nella mediazione con il presidente della Bce, Mario Draghi, la nomina di Lucrezia Reichiln a ministro dell’Economia va prendendo sempre più piede nel programma di Matteo e risulta preziosa non solo perché una donna per la prima volta ricopre il dicastero di gran lunga più importante ma anche perché si tratta di una donna dotata di grandi relazioni internazionali e forte di un rapporto di stima vero con Draghi. E comunque così ieri mangiando per cena una cosa rapida («La velocità» di Giacomo Balla sarebbe il quadro futurista prefetto che Matteo dovrebbe appendere nello studio di Palazzo Chigi) il quasi premier ha ragionato con i suoi amici più stretti: «I primi due mesi saranno decisivi. Conteranno la squadra, la stiamo facendo molto ristretta con 4 o 5 top player, e i provvedimenti da avviare immediatamente». E ancora. Se questi primi sessanta giorni saranno scoppiettanti, nel piglio mostrato in Europa e nelle cose da fare subito in Italia e il Jobs act per Matteo è la priorità delle priorità, «tutti poi si dimenticheranno - è il Renzi pensiero - le beghe del Pd e le parolacce tipo staffetta. E se il governo funziona, il partito segue».
Uno choc emotivo, ma del genere politicissimo e non emozionale, è ciò che Letta non aveva - «Dobbiamo essere delle bestie, buone ma determinate», è il grido di battaglia in queste ore del subentrante - e che gli italiani hanno un bisogno forte di provare secondo i nuovi campioni della «smodata ambizione». A cena l’altra sera al Quirinale, con Giorgio Napolitano e la moglie, è stata soprattutto la signora Clio a fare le domande. E tutte di tipo contenutistico. «Ma se lei va a Palazzo Chigi, che cosa vuole fare? E mi dice anzitutto che cosa intende fare sul lavoro?». Renzi ha raccontato il suo Jobs Act: «Da lì comincerei». E questo mix tra le proposte di Ichino e di Boeri-Garibaldi, che rappresenta una discontinuità forte rispetto alla linea Giovannini-Letta (infatti l’attuale ministro ha detto: «E i soldi per il Jobs act dove li prende Renzi?»), pare abbia colpito positivamente la coppia presidenziale.
La legge elettorale, con Berlusconi, è l’altra via maestra. Già imboccata da segretario, da premier Matteo ha intenzione di percorrerla con la velocità con cui è entrato nel cortile di Palazzo Chigi a bordo della Smart. «Con Berlusconi ho un accordo di ferro», assicura il Renzi a un passo dalla stanza dei bottoni, «e ce l’ho anche con Verdini. Il problema però è che c’è ancora Alfano nella maggioranza e l’Italicum, se non viene modificato, è fatto apposta per fare fuori il Nuovo Centrodestra. Ma Matteo non si fa tanti problemi: «Alfano? Sa che il mio è l’ultimo governo della legislatura. Dopo di me, ci sono le elezioni!».
L’INGLESE
Un chiodo fisso di Matteo è quello della scuola. Molto blairiano («Education education education», era il mantra dell’ex premier inglese). La lotta all’abbandono scolastico, al rivalutazione meritocratica e di reddito degli insegnanti, la messa a punto dell’edilizia scolastica sono materie in cima all’agenda di Renzi. Il quale il viaggio nelle scuole italiane, che stava preparando in veste di segretario del Pd, lo confermerà in qualità di premier. Ora Palazzo Chigi deve fare una serie di nomine importanti nelle principali aziende pubbliche. Renzi ha cominciato a maneggiare i dossier. E ha scelto la linea, almeno quella di principio che gli piacerebbe riuscire ad applicare in qualche caso: «Servono manager di grande profilo internazionale. Anche stranieri». E cita, il segretario next-premier, il caso inglese: «Sapete che il governatore della Banca d’Inghilterra è un canadese?». Non sarà facile spuntarla anche su questo, i boiardi sono sempre boiardi, ma nella «scossa necessaria» c’è anche questa forte voglia di sprovincializzare. Il che rientra nel programma più generale che vede, insieme alla riforma elettorale e del lavoro, il rilancio degli investimenti e la ripartenza delle opere pubbliche. Si può? «Se non ci riusciamo noi, la palude Italia ci inghiotte a tutti», osserva Mateo.
OLTRETEVERE
Il viaggio negli Stati Uniti, grande classico dei nuovi presidenti del Consiglio italiani, non rappresenta una difficoltà agli occhi di Renzi. Con Obama, il suo idolo, e con il governo di Obama - si veda l’amicizia tra Matteo e l’ambasciatore americano a Roma, John Phillips - il feeling è naturale. E verrà bissato il faccia a faccia che Matteo ebbe con Obama alla Casa Bianca, insieme a una delegazione di sindaci. Nel cuore dell’amministrazione Usa, Renzi può arrivare con facilità tramite il segretario di Stato, John Kerry. Con l’inglese Cameron, basta una telefonata. Con Merkel è tutto più complicato: ma la realpolitik della Cancelliera e quella del sindaco-segretario-presidente italiano avranno modo per trovare una convivenza. Così come è ancora da costruire, ma tra Bergoglio e il cattolicesimo democratico di Matteo il quid è comune, il rapporto con il Vaticano. Il Papa c’è da meno di un anno, il segretario di Stato, Parolin, è appena arrivato, e anche Renzi è nuovo e nuovista: e ciò li rende simili. Mentre la vicinanza al cardinale Scola, a Cl, alle Acli, agli scout e a tutto il resto della rete politico-ecclesiale è un patrimonio che torna utile a Renzi anche nella sua postazione di Palazzo Chigi. Dove - e qui siamo al sindacato - «con me gli inutili e infiniti tavoli di concertazione sindacale non si vedranno più». Renzi ne è arciconvinto. Ma nella sua nuova veste dovrà trovare, e qui sarà l’alchimia del suo successo, un format che contenga sia il suo profilo da semplificatore per eccellenza, allergico a riti barocchi e a indecisionismi vari, sia la modica quantità di mediazione senza la quale si rischia troppo.