Adriana Cerretelli, Il Sole 24 Ore 13/2/2014, 13 febbraio 2014
RIFORME, ITALIA ULTIMA IN EUROPA
Di sicuro il rapporto di cambio con il quale la lira è entrata nell’euro non ci ha favorito. Da quel matrimonio però sono ormai trascorsi 15 anni. E allora quando si scopre che dal 1999 ad oggi l’Italia è stato l’unico Paese dell’eurozona dove il Pil pro-capite è regredito del 3% quando persino in Portogallo e Grecia è aumentato, rispettivamente dello 0,8 e del 2,7%, quando in media è salito del 10,7% e ci sono Paesi come Germania e Finlandia nei quali si è addirittura impennato del 21,3 e del 20,9%, diventa inevitabile guardarsi allo specchio e concludere con un sonoro mea culpa.
Perché non si è capito, o non si è voluto capire, che il biglietto di ingresso nell’euro non rappresentava una conquista in sé ma il principio di una rivoluzione culturale, politica, sociale ed economica che, se non cavalcata con prontezza e lungimiranza, avrebbe finito per sommergerci. Come in parte è accaduto.
Raggiunta la meta, il Paese si è invece seduto su un compiaciuto immobilismo, nell’illusione che comunque Roma restasse "caput mundi" e il riposo del guerriero fosse più che meritato dopo le dure fatiche per rincorrere la moneta unica. Quel riposo è durato 15 anni: niente serie riforme strutturali, troppo costose politicamente. E poi la nuova era dei bassi tassi di interesse alimentava l’errata impressione che non fossero poi così necessarie o urgenti. La crescita economica sempre più piatta? Passerà.
Il risveglio è stato violento. Brutale. Al contrario di Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro siamo riusciti finora a evitare l’arrivo della "troika", il commissariamento internazional-europeo, le riforme su diktat altrui. Ma sarebbe illusorio credere per la seconda volta di poter restare nell’euro cullandosi nel dolce far quasi nulla con il debito in aumento, la competitività alla deriva, la crescita condannata a vivacchiare nel torpore strutturale. Anzi, sarebbe suicida per l’Italia e i suoi partner: siamo troppo grandi per fallire in solitudine. Le riforme, non a chiacchiere, dunque s’hanno da fare. Altrimenti, prima o poi, ci verranno imposte.
Prima che nell’interesse europeo le riforme però vanno fatte nell’interesse nazionale: alla fine l’ha capito anche la Francia socialista di François Hollande, che «se l’economia non cresce, se aziende e sistema-Paese non producono ricchezza, non c’è più niente da redistribuire».
Nel mondo globalizzato e sempre più mobile, la concorrenza è senza quartiere: vince chi è più competitivo cioè chi innova di più, investe su cervelli e materia grigia a tutti i livelli, forma manodopera sempre più qualificata, si adatta ai cambiamenti a ciclo continuo con sistemi organizzativi, prodotti, servizi e mercati, del lavoro e non, sempre più flessibili. Perde, invece, chi si ostina a sognare palliativi da deficit spending senza rinnegare modelli di sviluppo superati, sclerotici, inefficienti e abbarbicati alle mille rendite di posizione che hanno creato.
A furia di far finta (quasi sempre) di fare le riforme, a differenza degli altri partner dell’euro, l’Italia è finita nel club del potenziali perdenti: non solo da oltre un decennio è scivolata in fondo alla classifica Ue della crescita economica ma si ritrova molto in basso anche in quella mondiale della competitività: secondo l’indice IW 2013, su 50 Paesi è 34ma nel gruppo delle location di scarsa qualità (con Grecia, Portogallo, Turchia, India, Messico e Sudafrica) e 40ma per dinamismo da ansia di recupero.
Nemmeno nell’ultimo rapporto EuroPlus Monitor, pubblicato in dicembre a Bruxelles, il giudizio è confortante: «L’Italia ha un’economia matura con molte debolezze e pochi punti di forza. La situazione fiscale appare stabile nonostante la crescita tendenziale molto bassa. Per le sfide da affrontare, le riforme strutturali sono però troppo modeste e irregolari. La spinta alla crescita potenziale troppo debole». Holger Schmieding, capo economista della banca Berenberg e autore dello studio, aggiunge che «le riforme in Italia sono cominciate più tardi senza raggiungere per ora intensità e ambizioni di quelle di Grecia e paesi iberici. Per questo la competitività non è migliorata, l’export sta facendo un po’ meglio ma i costi del lavoro e l’eccesso di regolamentazione per prodotti e servizi si sono ulteriormente deteriorati».
Non a caso su 20 Paesi (i 17 dell’euro più Svezia, Gran Bretagna e Polonia) risultiamo ultimi per crescita tendenziale e costi del lavoro, penultimi per iper-regolamentazione dei mercati, diciottesimi per competitività, tassi di occupazione, elasticità delle pratiche di assunzione e licenziamento dove, con la Francia, occupiamo addirittura il 143mo e 144mo posto nelle graduatorie mondiali. In fondo in classifica anche per la valorizzazione del capitale umano, ormai la discriminante fondamentale di crescita e competitività.
«I problemi dell’Italia si accumulano irrisolti da oltre 30 anni. Nascono dall’elefantiasi di un settore pubblico invasivo, inefficiente e improduttivo e dalla caduta della produttività» riassume un funzionario europeo. Per questo, insiste, sbaglia chi insegue la competitività limitandosi a tagliare i salari: oggi in Italia i salari sono già bassi ma la produttività lo è ancora di più. Se non la si aumenta, non ci sarà crescita economica perché la competitività degli altri restringe la torta a disposizione: quindi o la si amplia con le riforme oppure si declina. Non basta. Il precariato ha interrotto il legame tra salario e formazione professionale, il flusso dai settori vecchi a quelli nuovi perché chi ce l’ha si inchioda al proprio lavoro e questo irrigidisce tutto il sistema.
«In Italia da anni si annuncia l’abolizione delle province e ora anche del Senato, si discetta di "contatori della semplificazione legislativa" ma poi non succede niente. Non c’è da stupirsi se gli investimenti fuggono dal Paese e ne arrivano ben pochi di nuovi» frusta un’altra voce europea. «In Italia non mancano le opportunità ma investire è rischioso e complicatissimo per le incertezze istituzionali, l’oscurità della giungla legislativa, l’arroganza di una burocrazia opaca e antiquata nella testa e nei metodi, un sistema fiscale complesso e impenetrabile. Spesso sono le pastoie amministrative e rendere impossibile esportare, a paralizzare lo sviluppo».
Certo, quando il costo degli adempimenti amministrativi per le imprese supera i 27 miliardi all’anno, quando avviarne una nuova costa 2.100 euro contro una media Ue di 370, quando per ottenere una licenza ci vogliono mediamente 234 giorni, quando la presentazione della dichiarazione dei redditi richiede oltre 250 ore, risolvere le vertenze commerciali 564 giorni per il primo grado e 1.210 per tutti i tre livelli previsti, le ragioni del declino più che un mistero appaiono il frutto di scelte scellerate da parte di una classe dirigente irresponsabile, arroccata su un sistema immobile che le fa comodo ma non cessa di devastare il Paese.
Basta pensare, in tempi di penuria di crescita e di risorse di bilancio, ai miliardi di fondi strutturali Ue sprecati per insipienza, pigrizia, incapacità amministrativa. «La burocrazia che funziona fa crescita perché aiuta l’economia reale» ricorda Bruxelles. Messaggio regolarmente ignorato a Roma e dintorni.
Nell’ultimo quinquiennio di passione la Grecia ha ridotto la spesa pubblica (al netto degli interessi) di un terzo, 29 miliardi, portandola in totale a poco più di 72. L’Irlanda l’ha tagliata di 5,5 facendola scendere a 57,7. Il Portogallo di 2,9 per arrivare a 69,5. La Spagna di 9,1 per toccare i 395 miliardi in tutto, L’Italia invece non solo non ha provato a contenerla ma l’ha addirittura aumentata: di 12,5 miliardi portandola poco sopra i 664 miliardi.
Eppure non è una leggenda quella che dice che le riforme strutturali, uno Stato più magro, un welfare più efficiente, mercati meno ingessati, regole meno asfissianti, portano crescita economica. Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia ne sono la prova provata. Un recente studio della direzione Ecfin conclude che riducendo i costi di avvio delle nuove imprese, spostando il carico fiscale dal lavoro a settori meno distorsivi e aumentando il tasso di partecipazione al lavoro l’Italia in 5 anni potrebbe veder aumentare il Pil dell’1,9% e in 10 ben del 4,6 per cento.
Il gioco vale dunque la candela. Peccato che finora nessuno sia stato disposto a impegnarsi davvero nella partita. Ormai però siamo rimasti soli nel ruolo dei riformisti riluttanti. Se non per senso di responsabilità verso il Paese, bisognerebbe agire prima di essere obbligati a farlo dai mercati e dall’Europa. Niente purtroppo ci ha finora impedito di farci del male bruciando le enormi risorse potenziali del sistema-paese. Di nuocere agli altri però non ci sarà permesso. È bene non dimenticarlo.