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 2014  febbraio 13 Giovedì calendario

E IL “MANGIAPRETI” CRAXI DISSE: NON FATE MANCARE I SOLDI AI PRETI


Trent’anni fa, il 18 febbraio 1984, nella stessa Basilica di San Giovanni in Laterano dove Mussolini l’aveva firmato nel ’29, Craxi siglava con il cardinale Agostino Casaroli il nuovo Concordato. C’erano voluti cinquantacinque anni, per arrivare alla revisione del testo voluto dal Duce e trasferito tale e quale nella Costituzione repubblicana, con quell’articolo 7 votato da De Gasperi e Togliatti, contro la volontà di Nenni, repubblicani e liberali.
Nell’84 le norme concordatarie erano già superate da un pezzo, la religione cattolica da tempo non era più la sola professata in Italia, l’indissolubilità del matrimonio era stata travolta dall’introduzione del divorzio, nel ’70, e dal fallimento del referendum abrogativo, nel ’74, dopo il quale, nuova sconfitta per la Chiesa e per i cattolici, era arrivata anche la disciplina dell’aborto. E al di là di questi problemi evidenti e ormai consolidati, c’era da rivedere tutta la materia finanziaria e fiscale dei rapporti tra Stato italiano e Vaticano, regolata da una serie di privilegi, ma anche dal sostanziale vassallaggio che il Duce aveva imposto al Papa, approfittando dell’occasione che si era presentata di chiudere la ferita storica del Risorgimento, della breccia di Porta Pia e dell’umiliazione dello Stato pontificio, privato dei suoi palazzi nella Capitale e costretto nelle mura della Città Leonina.
Per tutte queste ragioni, lontane e recenti, fu davvero sorprendente il fatto che fosse toccato a Craxi realizzare il nuovo Concordato, dopo decenni di tentativi inutili di tutti i presidenti del consiglio democristiani passati da Palazzo Chigi. Fino a quel momento, l’unico che si era avvicinato alla conclusione nel ’76, manco a dirlo, era stato Andreotti. Qualche anno dopo, ci aveva riprovato Spadolini, che tra l’altro, da storico, era considerato uno dei maggiori esperti dei rapporti tra Stato e Chiesa. Malauguratamente, nell’ ’81, il suo tentativo si era interrotto per lo scandalo dell’Ambrosiano e la morte violenta di Roberto Calvi.
A dispetto della sua infanzia cattolica (era stato chierichetto, aveva studiato in collegio dai preti e a tredici anni andava in giro con il suo parroco per assistere i malati), Craxi aveva fama di mangiapreti: come leader socialista e grande appassionato di cimeli garibaldini, d’altra parte, rappresentava la tradizione laica che era uscita sconfitta dal voto di democristiani e comunisti alla Costituente a favore del Concordato. Nell’83, nel passargli le consegne a Palazzo Chigi, Fanfani non gli aveva neppure fatto accenno al problema. La cartellina con i resoconti dell’interminabile trattativa con il Vaticano, non a caso, l’aveva consegnata al suo capo della segreteria. Gennaro Acquaviva, cattolico e braccio destro di Craxi, si portava dietro già allora il soprannome di «cardinale rosa». Il ruolo che ebbe nella partita della revisione non avrebbe potuto confermarlo meglio.
Seguendo la tradizione italiana, il negoziato si svolse in gran parte fuori delle sedi ufficiali e fu più rapido del previsto. Acquaviva e il cardinale Achille Silvestrini, l’altro grande protagonista della vicenda, s’incontravano nella parrocchia di San Fulgenzio alla Balduina, anonimo quartiere di Roma aggrappato a Monte Mario, sotto gli occhi di Piero Pratesi, incredulo intellettuale cattocomunista eternamente assorto sul suo messale.
Entrambe le parti avevano voglia di chiudere. In due mesi, tra ottobre e dicembre, il testo fu pronto senza intoppi. Wojtyla, primo papa straniero dopo cinquecento anni, diede subito il via libera: in fondo, la considerava una questione italiana e aveva promesso di non interessarsene troppo. Craxi premeva continuamente; e tutte le volte che Acquaviva andava a parlargli di un dettaglio, rispondeva: «Sbrigatevi!». Liquidò tutto allo stesso modo anche quando venne il nodo dell’8 per mille (l’invenzione di un giovane Tremonti, perché occorreva trovare un’alternativa al pagamento da parte dello Stato degli stipendi dei parroci e ai privilegi economici che il fascismo aveva garantito al Vaticano), e il «cardinale rosa», Giuliano Amato e Francesco Margiotta Broglio, il giurista che doveva materialmente scrivere il testo, andarono a spiegargli che si trattava di un punto delicato. La sua risposta fu: «Trovate il modo di non far mancare i soldi ai preti!».
Lo fece, spiega oggi Acquaviva, «perché malgrado la sua fama di anticlericale, Craxi era convinto che i parroci e le parrocchie rappresentassero una rete indispensabile per evitare il disgregamento della società italiana»”. E inoltre (ma questo il «cardinale rosa» non lo ammette) perché si aspettava dai vescovi, che con il Concordato acquisivano un’autonomia economica dalla Santa Sede mai avuta prima, una gratitudine politica che invece non arrivò.
Alle elezioni del 1987, le prime dopo l’esperienza della presidenza socialista, i vescovi infatti si schierarono come sempre con la Dc. Craxi ebbe un ottimo risultato, ma ci rimase male lo stesso. E fu per questo che poco dopo, quando il suo successore Giovanni Goria si incartò sulla regolamentazione dell’ora di religione (uno dei punti qualificanti dell’attuazione delle nuove norme concordatarie), voleva aprire la crisi di governo. Il «cardinale rosa» dovette sudare sette camicie per convincerlo che non poteva farlo, proprio lui che aveva firmato il Concordato.