Cristina Taglietti, Corriere della Sera 13/2/2014, 13 febbraio 2014
INNOCENTE DAVANTI ALLA STORIA LA VITTIMA, UN EROE DEL NOSTRO TEMPO
Identità, innocenza, storia, verità: sono le caratteristiche che fanno della vittima l’eroe del nostro tempo, il protagonista apparentemente dimesso, in realtà pronto a prendersi tutta la scena. Cronaca, costume, filosofia, diritto: oggi essere vittime dà prestigio, impone ascolto, riconoscimento, persino autostima, garantisce a chi sta dalla loro parte di essere nel giusto. Muove da questo presupposto la Critica della vittima , un «esperimento con l’etica», acuto pamphlet a cavallo tra la filosofia morale e la sociologia, con cui Daniele Giglioli intende smontare la macchina mitologica della vittima, metterne a nudo i meccanismi di produzione e soprattutto di mantenimento, affondando la lama del ragionamento in quell’ambiguità prodotta dall’intreccio di falso e vero che è alla basa di ogni mitologia. Il tema della vittima è centrale nel pensiero del critico, che l’ha analizzato nel saggio All’ordine del giorno è il terrore (Bompiani 2007) e, trasversalmente, in Senza trauma (Quodlibet 2011), in cui legava la tendenza all’estremo tipica della narrativa italiana degli anni Zero all’assenza di grandi eventi traumatici che avevano nutrito la scrittura fino a quel momento.
Qui Giglioli amplia e allo stesso tempo restringe il campo, inserendo la vittima all’interno di un complesso di forze che ha visto il passaggio dal Discorso del Padrone al Discorso del Capitalista. Sono molti gli addebiti individuati a carico della prosopopea della vittima: rafforzare i potenti e indebolire i subalterni, perpetuare il dolore, coltivare il risentimento, alimentare identità rigide e spesso fittizie, scoraggiare la trasformazione, privatizzare la storia, impedire di cogliere la vera mancanza che è essenzialmente mancanza di prassi, di politica.
Il pamphlet chiama a raccolta, spesso in opposizione, pensatori che, a vario titolo, si sono esercitati sul tema, da Rousseau a Foucault, da Girard a Jesi, non ponendosi come obiettivo polemico le vittime reali («al mondo non si soffre per finta»), naturalmente, ma offrendo la possibilità teorica di un superamento, di un ritorno alla kantiana «uscita dallo stato di minorità». Oggi, scrive Giglioli, «minorità, passività, impotenza sono un bene e tanto peggio per chi agisce». E se minorità è, come scrive Kant, «l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro», ecco la prevalenza di chi parla al posto della vittima. Giglioli individua il cuore del fenomeno nell’ossessione della memoria, che diventa anche memoria di Stato, oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge, che «onora chi non può più parlare occupando il suo silenzio con la grancassa delle retoriche commemorative».
Un presupposto, quello di parlare al posto della vittima, che è alla base anche di quella vasta galassia che Philippe Mesnard raggruppa sotto la voce «l’umanitario», terreno di una «sovranità senza politica che lascia le vittime senza logos e mantiene inermi i disarmati». Un po’, argomenta Giglioli, come è successo con il Novecento, oggi dipinto come il secolo della strage indiscriminata, del bagno di sangue, del massacro, che non a caso ha prodotto una proliferazione di «libri neri». Oggi il dispositivo vittimario viene avocato anche dai leader: si individua — e si condivide con una parte della società — un ostacolo, un estraneo, un nemico da espellere, si egemonizza il risentimento dei subalterni. Un meccanismo che ha presieduto tutti i tentativi di secessione, dai Balcani all’Italia, degli ultimi vent’anni.
Sono molti i campi in cui la vittima assume un ruolo centrale, ma su alcuni, come la letteratura, Giglioli passa in modo veloce, limitandosi a seminare qualche spunto o a identificare qualche esempio, come Antonio Moresco, il cui carisma, più che sull’indubbia qualità delle opere, si fonda, dice l’autore, su una sorta di mito dell’esclusione a cui ha fatto seguito la pubblicazione presso tutti i principali editori e il formarsi di un’ardente schiera di ammiratori. Secondo Giglioli la quantità di motivi vittimari e di identificazioni cristologiche disseminate in tutta l’opera, è, insieme alla morte, anche uno dei motivi del carisma di uno scrittore come Pier Paolo Pasolini.
Parlare di vittime significa necessariamente parlare dell’Olocausto. Giglioli colloca la figura della vittima in un contesto storico che identifica nel genocidio degli ebrei il parametro con cui vengono misurati gli altri, e che, nelle derive peggiori, inaugura quel fenomeno che Jean-Michel Chaumont ha chiamato «la concorrenza delle vittime», la contesa per il primato della sofferenza. Nel 1961 per la prima volta il processo Eichmann dà la parola alle vittime, ma è il discorso di Elie Wiesel a New York il 26 giugno 1967 il momento in cui dalla vergogna incolpevole dei sopravvissuti, incarnata in autori come Primo Levi e Jean Améry, si passa alla fierezza ( «Perché dovremmo pensare all’Olocausto come vergogna? — chiede Wiesel —. Perché non lo rivendichiamo come un capitolo glorioso della nostra storia ideale eterna?»). Dal processo Eichmann alla guerra dei Sei giorni, i testimoni, le vittime, diventano accusatori e «la posizione vittimaria assunta non più come accidente, affezione, causa esterna, ma come sostanza, essenza, natura intrinseca, può garantire questo nesso tra innocenza e potenza».
L’innocenza schiacciata dalla storia, d’altro canto, con tutto il corredo di culto dei caduti, è un tema che percorre anche molta parte della ricostruzione retrospettiva fatta dai militanti degli anni Settanta sulla loro vicenda. Gli esempi che Giglioli propone sono mattoni che conducono alla terza parte del volume, dove la vittima è analizzata attraverso le categorie di vuoto e pieno, mancanza e surrogato. La vittima promette identità in un presente che alla domanda «che fare?» ha sostituito «chi sono?», garantisce innocenza che non è soltanto aspirazione a non nuocere, ma desiderio di essere dichiarati incapaci di farlo. E, soprattutto, nella cultura dello storytelling globale, la vittima garantisce una storia, vera, perché la vittima è nel vero per definizione.