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 2014  febbraio 13 Giovedì calendario

LO SCUDO CROCIATO DI ENRICO


Facile dire: democristiano. Provate a immaginare Aldo Moro al posto di Enrico Letta e si scoprirà che di democristiani ce n’è una gran varietà. E che il modo aspro con cui Letta sta rintuzzando l’offensiva di Matteo Renzi (anagraficamente e caratterialmente un dc impossibile) esprime una democristianeria atipica.
Governiamo «come se fosse l’ultimo giorno», dice Letta. Ma il motto della Dc era piuttosto: come se non dovessimo finire mai, domani è sempre un altro giorno e si vedrà. Enrico Letta ha lo Scudo crociato nel dna politico. Ma un esponente classico del vecchio scudo crociato mai si sarebbe comportato così.
E invece Letta sembrava un democristiano e basta. Con l’aggiunta di un album di famiglia fatto di modi felpati e di diplomazia del sussurro. Un modo di fare ragnatela, più che Rete (questa è di Renzi) direttamente ereditata dai modi dello zio Gianni, che nei meandri della Democrazia cristiana d’antan si sentiva a proprio agio, ecumenico, conciliante, disponibile, trasversale, amichevole. I dc si chiamavano «amici» anche per questo. Gli avversari non se ne capacitavano. La penna brillante di Leonardo Sciascia immortalò con «Todo Modo» un mondo di rivalità e di ipocrisia che sotto il manto dell’«amicizia» celava pulsioni distruttive. Il potere democristiano aveva tutte le caratteristiche del potere, ma con la mollezza e la capacità di attutire nella soffice ovatta ogni contrasto. Dava un’immagine di potere imperituro e si suoi avversari se ne disperavano: moriremo democristiani. Poi la Dc storica scomparve nei gorghi del ’93 mentre Giulio Andreotti, l’incarnazione della democristianità immarcescibile, gratificata da un’imponente massa di voti destinata a gonfiarsi (sia pur, montanellianamente, a naso turato) ogni volta che i nemici del Pci sembravano avvicinarsi al primato, veniva colpito al cuore. E invece annaspavano gli ex socialisti, gli ex comunisti sembravano farla da padroni nel centrosinistra e gli ex democristiani si disperdevano tra i vari schieramenti, frammenti di un colosso che fu, destinati a rifugiarsi in partibus infidelium, vagheggiando la rinascita onirica di un nuovo centro carico di voti e capace di attutire gli effetti dicotomici, troppo conflittuali, del bipolarismo all’italiana. Poi il collasso della Seconda Repubblica, nata sul dogma del ripudio della Prima, ovviamente a forte caratura dc. Ed ecco i Letta, gli Alfano, i Casini (i Renzi, che però erano troppo piccoli quando la Dc era veramente la Dc). Con la solita litania lamentosa degli altri: «moriremo democristiani».
Chissà. Fatto sta che Enrico Letta, democristiano nei modi della quotidianità, lettiano (tendenza zio Gianni), nel momento decisivo, come sono decisivi questi giorni, sfodera un carattere pugnace e irriducibile che di democristiano classico ha veramente poco. Per mesi ha sopportato le punzecchiature quotidiane, le punture, le battute brillanti, le provocazioni aperte, i calembour sexy di Matteo Renzi ed è sembrato impermeabile, imperturbabile, inamovibile. Per molto, molto meno due non ex democristiani, anzi ex Pci, come Fassina e Cuperlo, si sono offesi a morte e non hanno sopportato le battute del neosegretario del Partito democratico. Lui, Enrico Letta, no. Mai è sembrato sul punto di offendersi. Ha attinto, lo ha detto ieri, alla sua calma zen, o forse, meglio, alla infinita pazienza democristiana. Salvo stupire tutti, e Renzi per primo, con la sua testarda volontà di non farsi estromettere dagli uomini smart e della Smart. Ha chiesto la meno democristiana delle condizioni: ha subordinato la sua uscita eventuale dal governo che presiede a un voto di sfiducia, o almeno a un pronunciamento chiaro, inequivocabile, quantificabile del suo stesso partito. Altro che «staffetta»: lui, il democristiano zen calmo e paziente, l’uomo che incassa senza reagire con scomposta verbosità, l’uomo che sembra ereditare un destino di angoli smussati, di conflitti addomesticati, di manovre avvolgenti, quest’uomo qui ha detto che della staffetta non vuol sentir parlare, che il testimone non lo vuole consegnare se non previo esplicito e motivato atto di sfiducia e di presa di distanze del suo stesso partito, del partito di cui era vicesegretario e che lo ha voluto a capo del governo delle larghe intese proprio perché esponente di spicco del Pd (altrimenti sarebbe andato a Palazzo Chigi Giuliano Amato, secondo i desiderata dello stesso Napolitano).
Per cui lui, democristiano nell’animo, dice che dal dibattito incandescente del Pd lui vorrà cogliere «le tante sfumature» (espressione dc doc). Ma vuole sapere da Renzi il dove, il come e il perché, davanti a tutti. Calmo e paziente sì, ma tostissimo quando arrivano le spallate al suo governo, tostissimo come nei giorni in cui Berlusconi fece ritirare i suoi ministri ma fu battuto da un Letta molto determinato a proseguire l’azione di governo con Alfano. Per cui sarà scontro. E non c’è parola più refrattaria al modo democristiano di concepire la vita e la politica di «scontro». Poi l’intesa, forse, democristianamente si troverà. Ma in campo aperto,e non nelle segrete stanze, difese da uno scudo. Un tempo, crociato.