Enrico Franceschini, La Repubblica 13/2/2014, 13 febbraio 2014
BERTOLUCCI, OBRIST E IL MESTIERE DELL’ARTE
LONDRA La poesia, Roma, Pasolini, Moravia, Elsa Morante, Godard, Sergio Leone, la commedia all’italiana, Marlon Brando, Roland Barthes, Novecento, Hollywood. Tutta la vita di Bernardo Bertolucci, l’unico regista italiano ad aver vinto l’Oscar per il miglior film in assoluto (non per il miglior “straniero”), in due ore di dialogo a ruota libera con Hans Ulrich Obrist, direttore della Serpentine Gallery, celebre museo di arte moderna, insieme alle domande di un folto pubblico e di qualche giornalista all’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Una intervista “impossibile”, come la definisce la direttrice Caterina Cardona, evocando quelle “impossibili” davvero che Giorgio Manganelli faceva alla Rai nei primi anni ’70. Un’opportunità unica per ascoltare “l’ultimo imperatore” del cinema italiano, a 72 anni sprizzante energia anche dalla sedia a rotelle, con un occhio al futuro («farò un altro film, l’idea c’è, manca la forma ma arriverà») e una montagna di ricordi dietro le spalle.
Obrist: Cominciamo dall’inizio: lei non doveva diventare un poeta?
Bertolucci: Per il figlio di un grande poeta era normale cominciare scrivendo poesie e così feci anch’io, tra i 6 e i 18 anni. Ma mio padre Attilio era anche critico cinematografico della Gazzetta di Parma e mi portava con sé a vedere le proiezioni. Da bambino ne rimanevo incantato, mi ero perfino convinto di somigliare a John Wayne. Poi a 16 anni ricevetti una cinepresa a 16 millimetri e girai il mio primo film, La teleferica. Da allora pensai meno alla poesia e di più al cinema.
Obrist: Come fu il passaggio da Parma a Roma?
Bertolucci: Avevo 12 anni quando la mia famiglia si trasferì nella capitale e in principio non mi piacque per niente. Mi sentivo in esilio. Le facce dei piccoli borghesi romani del nostro quartiere mi sembravano infinitamente meno nobili di quelle dei contadini emiliani delle mie origini, un pensiero che mi sono portato dietro fino a quando ho girato
Novecento,
che è un film sulla contrapposizione tra i contadini e le altre classi sociali.
Obrist: A un certo punto nella sua vita entra una seconda figura paterna: Pasolini. Come vi conosceste?
Bertolucci: Il primo incontro rischiò di finire male. È domenica, suonano alla porta di casa, apro e vedo un bel giovane elegante che dice di avere un appuntamento con Attilio Bertolucci. Lo faccio aspettare fuori, sveglio mio padre che riposava e gli dico: c’è un tizio che ti cerca, ma secondo me è un ladro, chi vuoi che venga a cercarti di domenica a quest’ora? E mio padre mi grida di correre ad aprirgli, che quello è un grande poeta.
Obrist: Invece finiste entrambi per fare cinema.
Bertolucci: Pier Paolo venne a vivere da noi e ogni volta che scrivevo un poema andavo subito a farglielo leggere. Diceva che dovevo raccoglierli in un libro. Ma finite le scuole andai un mese a Parigi, lo passai tutto dentro la Cinémathèque e quando tornai ero cambiato. “Ti piace il cinema?”, mi chiese Pier Paolo e risposi di sì. “Allora farai il mio aiuto regista per Accattone”, che sarebbe stato il suo primo film. Obiettai che non sapevo nulla del lavoro di regista. “Neanch’io”, mi rispose tranquillo.
Obrist: Come furono i suoi primi anni ’60 a Roma?
Bertolucci: Roma era una città molto più interessante di com’è oggi. Passavo quasi ogni sera fuori a cena con Pier Paolo, Moravia ed Elsa Morante a discutere di tutto. Mio padre mi rimproverava di non essermi laureato, io gli rispondevo: ho avuto la mia educazione a Campo de’ fiori. Una fantastica educazione. Vorrei che i giovani d’oggi potessero avere amici più vecchi e più saggi, ma che non ti trattano dall’alto in basso, come ebbi io con loro tre.
Obrist: Quindi ha lavorato con Sergio Leone: come andò?
Bertolucci: Io sono cresciuto amando la Nouvelle Vague del cinema francese, Godard e Truffaut, al punto di pensare di essere diventato francese anch’io. La prima volta che un giornalista di un quotidiano romano venne a intervistarmi gli dissi che avremmo dovuto parlare in francese. Perché mai, fece quello, e io: perché è il linguaggio del cinema. Non amavo la commedia all’italiana, neanche la migliore, nemmeno Monicelli e Risi, perché non erano interessati al linguaggio del cinema. Mi piacevano Antonioni, Pasolini, Visconti, questo sì. E Sergio Leone. Perché aveva qualcosa di diverso dagli altri. Dopo Il buono, il brutto, il cattivo, mi chiamò e mi chiese: perché dici in giro che ti piacciono i miei film? Perché, risposi, mi piace come giri il culo dei cavalli, solo tu e John Ford fate vedere il culo, gli altri li riprendono sempre davanti o di fianco. Allora, sentenziò lui, lavorerai con me. E così scrissi per lui, insieme a Dario Argento, un po’ di C’era una volta il west e C’era una volta inAmerica, il suo film proustiano.
Obrist: È vero che Godard non le disse se gli era piaciuto Il conformista?
Bertolucci: Godard era il mio dio. Ma a quel tempo era diventato maoista, non andavamo d’accordo politicamente, tanto che mi iscrissi al Pci quasi per ripicca, e cominciavano a piacermi di meno anche i suoi film. Però aspettavo con trepidazione il suo parere sul Conformista. Finalmente mi dà appuntamento a Saint-Germain-des-Prés una sera alle 10, piove, è pieno di giovani con l’impermeabile, ma Godard non arriva. Infine eccolo, sigaretta in bocca, immancabili occhiali da sole. Mi porge un pezzetto di carta e scompare. Lo apro, c’è una gran foto di Mao e una scritta: “Abbasso l’imperialismo e l’individualismo”. Volevo una sua parola sul Conformista e mi diede uno slogan maoista.
Obrist: Come scelse Marlon Brando per il protagonista di Ultimo tango a Parigi?
Bertolucci: Prima proposi la parte a Gian Maria Volonté, che rispose: non se ne parla nemmeno. Poi a Jean-Paul Belmondo, che quasi mi cacciò via a calci dicendo: io non faccio film porno. Quindi ad Alain Delon, che accettò a patto di fare lui il produttore e dunque poter cambiare tutto. Poi una sera a Piazza Navona parlando con Moravia, che mi aveva scritto qualche dialogo per il film, saltò fuori il nome di Brando. Marlon venne a incontrarmi a Parigi, gli feci vedere lì
Il conformista e accettò, ma volle che io andassi a casa sua per un mese a Los Angeles per parlare del film. Ci andai e parlammo della vita, di letteratura, di tutto, tranne che del film. Ma intanto aveva detto di sì.
Obrist: Cos’è stato per lei Novecento?
Bertolucci: Un’esibizione di megalomania: dopo il clamore di
Ultimo tango sentivo di avere un grande potere e di poter fare quel che volevo. Pasolini diceva che il successo è atroce: ma la mancanza di successo è ancora peggio. Passai un anno a girarlo nella valle del Po, un anno duro e magnifico. Roland Barthes nel Piacere del testo parla di un futuro in cui si mescoleranno tutti i generi, tragedia e commedia, e questo era esattamente ciò che volevo io con Novecento.
Obrist: Che effetto le fece l’Oscar per
L’ultimo imperatore?
Bertolucci: Ad alcuni l’Oscar fa un effetto mistico, ma per me fu pura gioia. E poi avevamo avuto nove nomination e diventarono nove Oscar, ne vincemmo così tanti che persi la premiazione di uno perché ero andato alla toilette.
Obrist: A proposito di Oscar, pensa che
La grande bellezza di Paolo Sorrentino lo vincerà? E a lei è piaciuto?
Bertolucci: Sono quasi sicuro che lo vincerà e lo voterò senz’altro. È un film di straordinaria potenza. Ha dei momenti che mi piacciono meno, quando Sorrentino vuole confrontarsi con La dolce vita, un confronto impossibile, anche perché Fellini aveva Mastroianni, un Marcello giovane e bello, e Servillo, che pure è un grande attore, è un’altra cosa. Ma è un film che la gente ama o odia, e pochi film suscitano sentimenti così contrapposti.