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 2014  febbraio 13 Giovedì calendario

ENRICO IL COMBATTENTE ZEN


IN ITALIA ci sono quelli, come Mario Monti, che entrano d’argento ed escono di stagno e ci sono quelli che entrano di stagno ed escono d’argento. Al punto che sembrava persino bello e fragile, come il suo amato Dylan Dog del «prima il dovere e poi il giacere», ieri sera Enrico Letta mentre moriva combattendo.
E AGITAVA le mani aperte, sbatteva gli occhi e con la bocca asciutta scandiva: «Un aggiustamento non è sufficiente. Non mi occupo delle cose che mi propongono di fare domani, o doman l’altro». E quando lo scatto di ribellione gli ha raddrizzato il capo — «chi vuole prendere il mio posto, spieghi cosa vuole fare» — mi sono stupito di non vedergli nella destra, levata in alto, la spada, mentre ancora diceva: «Le dimissioni non si danno per diceria, per retroscena, per chiacchiere di palazzo».
E si alzava sulle punte come in un balletto sul carbone ripetendo «sono al servizio del Paese», il nodo della cravatta strettissimo, il viso mai così tagliente, prima i foglietti di appunti e poi la matita stretta tra le mani: «Sono stato accusato di avere perso tempo. Se perdita di tempo c’è stata, non è stata colpa mia». Serrava il pugno dopo avere bevuto ancora una volta dal bicchiere: «Io chiedo chiarezze come le chiedono tutti gli italiani ». E guardava in alto e ora si capisce cosa intendesse l’altro ieri per Provvidenza: «Ogni giorno come se fosse l’ultimo ».
Letta sa bene che, un minuto dopo la cacciata, lo prenderebbero per sciocco e lo deriderebbero, come sempre è accaduto a tutti i grandi perdenti della politica italiana, da Martinazzoli a Occhetto, a Mario Segni, a Veltroni…, anche se nessuno ne nega mai la nobiltà, i meriti, una certa grandezza personale: «Sono stati talmente tanti quelli che fin dall’inizio hanno tentato di mandarmi via».
Non c’è stato nulla di travolgente nella premiership di Letta, tranne il capolavoro di licenziare Berlusconi senza far cadere il governo del quale faceva parte, ma solo ieri, nel suo giorno da leone, ha smentito in poche ore la sua presunta democristianità, che gli avrebbe imposto, come gli aveva suggerito Bruno Tabacci, di trattare la resa e di accettare il ministero degli Esteri o la Commissione europea: «Non ho alcun interesse personale e sono sereno, sono Zen», che è un altro luogo dell’immaginario contrapposto alla Smart di Renzi, che in realtà è la Smart di Ernesto Carbone, un ex lettiano soprannominato “Giuda” dai lettiani doc. E Carbone è il solo renziano che ieri sera ha parlato: «Enrico Letta vuole tirare a campare, il suo unico obiettivo è restare a Palazzo Chigi». Lo Zen è la famosa forza tranquilla in faccia all’agilità della “city car” che ruba il posto nei parcheggi. Anche l’idea di sentirsi pronto a dare lezioni di serenità addirittura «in un convento buddista» è roba sofisticata, uno schiaffo alla sicumera della politica con i calzoncini corti. Un galantuomo sacrificato finisce sempre in un convento dove diventa esempio, fosse pure per il monaco che dorme nella cella accanto: «Non facciamo che appena finisce l’emergenza finanziaria ci incasiniamo sulle nostre vicende».
E prima ancora di impartire una lezione di stile a Renzi («l’omicida in Smart che sarebbe piaciuto ad Hitchcock» aveva detto ridendo a un amico), Enrico Letta ci ha liberato dall’incubo dello ziolettismo che era il cascame del familismo al contrario, la furbizia pettinata della politica politicante che Dylan Dog, in uno degli albi più famosi, liquidava così: «I mangiatori di spade usano un trucco quando inghiottono la spada: prima inghiottono il fodero».
Ora sappiamo che Enrico Letta non è un mangiatore di spade. Eppure ce lo aveva detto: «Nel 1984 quando venni invitato al congresso dei giovani democristiani rimasi sconvolto. Avevo visto infatti gente calarsi dalle finestre, e gruppetti che si accapigliavano sin nei bagni. Pensai: se questa è la Dc, io non sarò mai un democristiano».
E anche nell’incontro tra i due non era certo Letta il democristiano. Nel faccia a faccia all’ora di pranzo il perdente sembrava il vincente, perché rifiutava: aveva la forza del “no” contro tutte le lusinghe. Era Cyrano de Bergerac quando affronta il prepotente visconte di Valvert con i suoi celebri “grazie no”, “grazie no”. Letta stava dunque nel ruolo del Cyrano della politica che ad ogni “no” avanza di un grado di potenza, di forza e di nobiltà. È quello il momento più bello della commedia eroica francese: ad ogni no è il bacio di una dama, è la preghiera di un frate cappuccino, è il sorriso del cielo.
E però solo ora che lo mandano via ci siamo accorti che il nipote aveva una storia diversa da quella del berlusconismo innestato sul borghese piccolo piccolo di origine dc: «Lo so, lo so, la politica ha le sue esigenze spietate» diceva ieri Letta ai pontieri, a Franceschini, il compagno di una vita, a Delrio e a tutti gli altri che lo spingevano a dimettersi: «Le mie dimissioni sarebbero un’ammissione di inadeguatezza che il mio governo non merita ». Eppure gli chiedevano, gli amici e i compagni, di fare il passo indietro come nella Roma del tardo Impero quando i proconsoli erano costretti a immergersi nel bagno caldo e a svenarsi per evitare ai vincitori l’infamia di un sicario: «Lo so, lo so la politica ha anche la sua etichetta da rispettare e cosa può fare un servitore delle Istituzioni come me, se non accettare le regole? Però …».
C’è un ‘però’ che Letta riassume nella parola «Palazzo» in conferenza stampa alzando la mano sinistra a palmo spalancato come ad intimare l’alt a qualcuno: è Renzi l’uomo di Palazzo, è lui il democristiano: «Io propongo cose concrete, ai partiti e al Parlamento». Ecco, c’è un momento in cui la politica entra in conflitto con la dignità personale e allora non c’è regola e non c’è etichetta che tengano: «Qui non vogliono cambiare nulla tranne me» aveva spiegato in privato.
Certo è ingenuo quel «patto di coalizione » che Letta ha chiamato «Impegno Italia» presentato a partiti che lo hanno già scaricato, persino quell’Alfano che sino a ieri ad ogni dichiarazione premetteva «io di Letta sono innanzitutto amico personale» e ora invece stabilisce che «è finita l’era del governo Letta perché Enrico si è sconfitto da solo». E siamo nella caricatura italiana dove la sconfitta è sempre di uno solo e la vittoria è di tutti. E va bene che alla politica non si applica la categoria etica del tradimento, ma certo una figura come questa di Angelino Alfano in tre mesi passato da delfino di Berlusconi a sponsor di Renzi, è la prova che la nuova destra è ancora messa molto male, come ai tempi in cui nacque il trasformismo.
Dunque Letta sa che il suo programma è a futura memoria anche se suona come risposta antropologica «alla batteria dello smartphone» di Renzi, la fatica del governare contro la velocità della battuta e del brum brum, la voglia di sciogliere i nodi invece di tagliarli, quella caparbietà che lo spingeva a cercare contratti negli Emirati Arabi mentre in Italia il suo avversario lungamente spiegava ad Aldo Cazzullo sul Corriere che «sì, certo, il governo proseguirà per tutto il 2014. Enrico non si fida di me, gliel’ho detto l’altro giorno. Ma sbaglia».
Di sicuro rimarrà nella politica italiana l’immagine di quest’uomo nato vecchio che usa i fogli come scudo e ha scelto l’inno del Liverpool come colonna sonora della sua ultima battaglia, perché sempre la musica è l’estremo salvagente di chi si sente solo e dunque “You’ll never walk alone”, non camminerai mai solo, che è la canzone di una squadra di mediani, ma è anche il grido di chi non ha più una squadra e si aggrappa alle maglie degli ex compagni, della sua ex squadra. Seppellirlo democristiano sarebbe stato molto facile. Adesso invece la preda è braccata e ferita ma non è ancora finita dentro il carniere: «Quando cammini nel bel mezzo di una tempesta/ tieni bene la testa in alto / e non aver paura del buio».