Isabella Mazzitelli, Vanity Fair 12/2/2014, 12 febbraio 2014
I SASSOLINI E LA CURA DELLA TACHIPIRINA
Settembre 2012. Il mio amico Alessandro mi scrive che sua moglie Francesca deve operarsi di nuovo, e di nuovo fare la terapia, e che è una bella mazzata, anche se lei «fa la roccia». Quando le parole sono inadeguate ne usi di stupide: a me viene in mente chissà da dove la morra cinese, gli scrivo di dire a Francesca che «sono la carta e abbraccio la roccia». Un mese dopo mi scrive lei: «Senti carta, la roccia vorrebbe aprire un blog». Wondy nasce così. Oggi – sono orgoglioso di scriverlo – le sue «chemio avventure» diventano un libro che, proprio come lei, fa sorridere e pensare. Io non so se sono la carta. Francesca, di certo, è la roccia. Luca Dini
una giovane bella donna con grandi occhi azzurri e due figli molto piccoli, anche loro con grandi occhi blu, scopre di avere un cancro – naturalmente molto aggressivo – ed entra nel tunnel: intervento ultrademolitivo, mesi di chemioterapia, niente capelli in testa e al posto di un seno protesi e cicatrici. Poiché la nonna e la mamma erano state nel tempo ugualmente colpite, indaga, scopre di avere il temibile gene Brca1 mutato e decide – alla Angelina Jolie, per intenderci – che si farà preventivamente togliere anche l’altro seno, e per stare davvero tranquilli anche le ovaie. Non ne ha il tempo: un altro tumore cattivo come il primo si è già formato nel seno rimasto. Via anche quello, tutto ricomincia. I bambini sanno che la mamma ha i «sassolini», sono protetti da un papà ultra-amorevole e da supernonni ma insomma, anche per loro non deve essere facile. Se questa fosse la trama di un romanzo, io forse ci penserei due volte – personalmente ho già dato. Però se il libro l’ha scritto una ragazza che da bambina sognava di avere il costume di Wonder Woman, e che per questo da sempre è per tutti Wondy, allora le cose cambiano.
Noi e voi di Vanity Fair la conosciamo bene: il suo blog ha esordito il 15 ottobre 2012, ha catalizzato centinaia di tumorate e no («tumorate di Dio» è un suo termine: lei dei giri di parole non sa che farsene e già allora alla seconda riga si definiva «una donna un po’ sfigata»). Mille giorni dopo la scoperta del primo «sassolino», Francesca Del Rosso, 39 anni, milanese, giornalista e scrittrice, ha intitolato così anche il suo primo romanzo: Wondy. Ovvero come si diventa supereroi per guarire dal cancro. Doveva essere una specie di manuale, una cosa del tutto nuova per il mercato editoriale italiano, con paragrafi come «I dieci rimedi contro nausea & co.», «Le dieci cose che non si devono dire a un paziente oncologico» e via di questo passo. Sarebbe stato comunque utilissimo, però, per fortuna, Wondy si è fatta prendere la mano, ha aperto il cuore e scritto il racconto di una natura guerriera, generosa, ottimista e spiritosa quanto serve per fare (anche) ridere.
Tutto è cominciato da uno pseudonimo su un blog.
«All’inizio non volevo dire chi ero, anche per non personalizzare troppo: ho pensato che fosse più giusto essere “una delle tante” che si ammalano di cancro al seno ogni anno. Oltretutto, quando ho cominciato ero alla recidiva: in parte sapevo già tutto, mi sentivo un po’ esperta nel dare consigli. Ma ho avuto ancor di più, si è creato un gruppo bellissimo».
L’idea del manuale nasceva da qui?
«Manuale delle chemio avventure, sì: vi dico come si fa. Cosa mettere nella chemio-borsa, gli stratagemmi per le lunghe attese in ospedale, i segreti contro la nausea… Insomma, trovare un modo divertente per affrontare la situazione».
Quante virgolette mettiamo all’aggettivo divertente?
«Diciamo un paio. Sono almeno sei mesi complicati di vita da gestire. Io non volevo che i “sassolini” si impossessassero della mia famiglia: in fin dei conti avevano già me. Quando sei sana, sei una donna normale, magari con marito, figli, lavoro, amici. Quando ti ammali sei solo tu, anzi neppure quello: diventi un semplicissimo, banale numero, una paziente oncologica, una malata. Diventi quasi trasparente».
Parliamo di medici?
«Non quelli che hanno operato me – cui penso con riconoscenza e amicizia – ma in generale i medici dovrebbero fare un bel corso di umanità – gli studenti un esame obbligatorio – per imparare ad affrontare i malati, a comunicare le diagnosi, e prima ancora a salutare e sorridere. Non sei capace? Ma fai un cazzo di altro mestiere! Non lo sai che l’aspetto umano aiuta a guarire? Che il tuo sorriso e la tua gentilezza valgono più di un macchinario?».
La chemio rossa si chiama «la mitica sangria», quella gialla «il crodino». Il bicchiere (della vita) bisogna vederlo sempre mezzo pieno – ma di mojito – e quando sale la febbre si prende la «tachipiriña». Come la mettiamo?
«Che mi piace bere, qualche volta, sì. E che si deve ridere, anche, sì. La chemio rossa è tremenda, quella gialla un po’ meno, ma onestamente quando torni a casa e montano gli effetti collaterali sei in un buco nero, fai fatica a ragionare, vuoi solo sparire. Il mio vantaggio è che so, e posso testimoniare, che poi passa. Che la nausea e il gusto di ferro si combattono col limone – decine di ghiaccioli al limone – o anche con la menta. E che quando tutto è finito la menta la metti nel famoso mojito e ti senti in vacanza. Pensi che, leggendo il blog, mi ha contattato un gruppo che organizza voli su aerei biposto, alla fine dei quali ti offrono un mojito. Se vinco la paura – non vorrei sfidare tutta tutta la sorte che mi è data – vado».
Non ha mai indossato una parrucca: una scelta forte.
«Beh, non sono l’unica. C’è stato un momento in cui volevo quasi andare a provarla, ma è durato poco: forse se fossi stata un gran cesso l’avrei presa, ma contavo sull’occhio azzurro e sul cranio senza bozzi. La crapapelata è impegnativa ma, a parte gli scherzi, l’ho fatto per i miei figli: sono piccoli, ho pensato che, per loro, avere una mamma che si mette e si toglie i capelli sarebbe stato tremendo. So che c’è chi la leva per andare a dormire, ma con due bimbi di 4 e 2 anni che venivano nel lettone la cosa era improponibile. E poi, quando mi sentivo un po’ meglio riuscivo a truccarmi per uscire ed ero magra come un chiodo. Posso dirlo? Mi sentivo una figa spaziale. Se no, mi mettevo un cappello».
Parliamo del marito, Ken nel libro.
«Ho avuto paura che si potesse rompere qualcosa, certo. In questi tre anni ci sono stati momenti di altissima complicità e altri difficili: nella malattia ci si stringe, ci si allea, ma quando guarisci la stanchezza viene fuori. E se il tumore torna… be’, la vita è una fisarmonica. Credo che non sia facile per una persona sana stare accanto a una che non lo è: ci si sente impotenti, ma nello stesso tempo ci si costringe a non cedere, si deve far scudo a ogni rottura di coglioni, farsi carico dei figli, arginare i parenti. Lui ha tenuto botta: avendo accanto Wondy, non poteva fare una figuraccia».
E il resto del mondo, amici, colleghi?
«La seconda volta che ti ammali è diversa. Manca l’elemento di novità, il trauma, è come se leggessi negli occhi di molti “Ancora? Che palle!”. D’altro canto, lo dici anche tu. Io non ero più tanto spiritosa, ero stufa. Vedendomi forte, alcuni hanno mollato, altri sono stati perfino stronzi, ma ho capito le loro ragioni. Forse ero meno simpatica. Detto questo, la vita va avanti, perdi della gente per strada ma altra ne guadagni. Fai pulizia nell’agenda, ma quelli che restano sono tutti numeri uno».
Arriva a dire che il cancro è un’opportunità?
«Penso che averlo avuto assomigli un po’ al momento in cui diventi madre. C’è un prima e un dopo. Entrambe le esperienze ti ricentrano, ti danno prospettive diverse, priorità diverse, valori granitici. Sfrondi: nel caso del tumore anche piuttosto bruscamente. Rispondi delle cose in prima persona. Riscopri momenti per te. E quindi sì. Se guarito, il cancro è un’opportunità».