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 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

Un libro di Carlo Verdelli


Questa è una intervista (quasi) impossibile a un personaggio (quasi) impossibile, il mio burbero amico Carlo Verdelli, fuoriclasse d’alte architetture giornalistiche, ex direttore di questo giornale e di molti altri, tra cui il Sette del Corriere della Sera e una stellare Gazzetta dello Sport. Verdelli d’abitudine parla poco, appare poco, sorride poco, non dà confidenza, non dà interviste, al massimo le fa. Ma stavolta ha scritto un libro e gli tocca. Lo sa. Ne soffre. Dice: «Però sbrighiamoci».
Il libro si chiama I sogni belli non si ricordano, sono 33 capitoli che girano concentrici intorno al più prezioso giocattolo dell’infanzia: i bambini. Tutti campioni di quella ruvida gara che si chiama vita. Ma tutti con così tante differenze alla partenza – dal colore della pelle alla temperatura del cuore – che ognuno fa caso a sé, tutti in balia del destino che può essere pura sofferenza, oppure gioia. E in balia del mondo degli adulti, che può essere pura sofferenza, oppure gioia. Ma con una cosa in comune, la pulviscolare via d’uscita della fantasia, dove si incontrano pecore che parlano, angeli, margherite, nuvole in viaggio. Una via d’uscita così leggera da dissolversi in fretta, e perciò da conservare nella bambagia dei ricordi e poi da tramandare.
È per questa ragione che hai scritto questo omaggio all’infanzia?
«Non è una ragione. Era un desiderio. Questo è un libro che volevo scrivere da 50 anni».
Ne hai 56.
«Appunto. Si occupa di cose che mi chiedevo quando ero molto piccolo e guardavo il mondo, le facce dei grandi, la misteriosa concatenazione delle cose».
Sono eventi o sensazioni che di solito si dimenticano.
«Avere avuto tre figli, l’ultimo ancora piccolo, mi ha tenuto in allenamento. I figli mentre crescono verso il futuro ti parlano del tuo passato».
Una bella sfida, anche rischiosa.
«Lo so. Vista la mia storia professionale, tutti si aspettavano un libro molto serio sulla politica, sulla cronaca, magari la biografia di Renzi».
Per carità.
«Appunto. La cosa è nata da una telefonata di Paolo Zaninoni, il direttore editoriale di Garzanti. Aveva letto le storie che scrivo per Repubblica e mi ha chiesto di scrivere per lui».
Carta bianca?
«Sì. Ci ho pensato, sono tornato da lui, gli ho detto farei un libro di racconti sui bambini. “Per bambini?!”, mi ha chiesto…».
Saltando sulla sedia.
«Più o meno. Gli ho detto no, per adulti, ma sui bambini. Avevo appena letto la storia di un ragazzino etiope adottato nell’hinterland milanese, che voleva tornare a tutti i costi in Africa. Era scappato un paio di volte. E siccome lo riprendevano, ha fatto in modo di scappare per sempre, impiccandosi».
Il tuo racconto si chiama Il bambino salmone ed è tra i più belli.
«Grazie. E ci volevo mettere anche delle poesie».
Le ho lette. Nessuno immaginava Verdelli poeta. Una dice: «L’odore del dolore delle donne / mi soffoca il cuoricino / molto più del gas nervino». È una malinconia cattiva che mi ricorda Arbasino, se consenti.
«Consento, però esageri, non scriverlo».
Promesso. Che cosa ti affascina di quella stagione della nostra vita?
«Tutto. I bambini vengono da chissà dove, sono fatti d’aria, si formano nell’acqua, atterrano nell’ossigeno del mondo. Sono viaggiatori formidabili, sono esploratori pieni di ardimento».
Di un mondo per lo più ostile.
«Devono imparare una infinità di codici, la lingua, i sentimenti. E a stare in piedi da soli, se capisci cosa voglio dire. Circondati dagli adulti che si impegnano a farli smettere di essere bambini il più presto possibile: piantala di fare il bambino, cresci!».
Tu invece hai ricominciato.
«In un certo senso, sì. Mi sono messo all’altezza degli occhi di un bambino e ho provato a guardarmi intorno».
È un libro malinconico.
«Mi sono fatto l’idea che quella stagione magica in fondo sia sempre un’occasione sprecata, colpa anche dei bambini che a un certo punto diventano complici degli adulti per farla sparire».
Tu che bambino sei stato?
«Medio».
Figlio unico?
«Figlio unico, padre operaio, madre prima impiegata e poi casalinga. Non ricchi, non poveri».
Carattere dei tuoi?
«Affettuosi, mai sdolcinati. Mio padre uomo solitario, mia madre più vivace: complementari».
Ti imbarazza parlarne?
«No, perché?».
Sei telegrafico.
«Tu scegli le domande, io scelgo le risposte».
Giusto. Che cosa ti manca di quella stagione?
«L’intensità con cui si guardava e si sentiva il mondo. La capacità di allargarlo e poi anche di inventarlo. Di cambiare identità durante il gioco, di fare finta. Ma sempre facendo sul serio».
Tu giocavi per strada?
«Il più possibile».
Strade di periferia?
«Così periferia che per noi via Mac Mahon era il centro di Milano».
È vero che avevi la predilezione per i cattivi?
«Peter Pan mi è sempre stato sulle palle. Non vedevo l’ora che Capitan Uncino lo inchiodasse al muro».
Quanto hai impiegato a scrivere i racconti?
«Un anno».
Il tuo libro di riferimento?
«Nessuno».
Il tuo libro più amato?
«Chiamalo sonno di Henry Roth. Monumentale. Racconta di un emigrato ebreo in America. Un bambino».
Il mestiere che sognavi da piccolo?
«Un sacco di lavori, tranne il giornalista».
Infatti sei entrato nella tua prima redazione più di trent’anni fa, eri un ragazzino.
«Ho cominciato sulle mitiche pagine milanesi di Repubblica dirette da Gian Piero Dell’Acqua, il mio maestro, che poi ho ritrovato caporedattore a Panorama Mese».
Nella tua carriera hai cambiato parecchi giornali per irrequietezza o cosa?
«Per curiosità, occasioni, sfida. Ne ho cambiati una dozzina, molti settimanali da Epoca a Sette, a Vanity Fair. Una lunga navigazione dentro il Corriere della Sera, prima con Paolo Mieli, poi con Ferruccio De Bortoli».
Eri il vicedirettore più temuto. Nella rubrica di redazione di un mio amico direttore, accanto al tuo cellulare c’è scritto: mi raccomando NON telefonate, chiamo io. Perché sei così brusco nei rapporti?
«Lavoro molto, pretendo molto. Ma anche mi affeziono molto».
I giornali che hai amato di più?
«Tutti. Ma specialmente quelli che ho trovato sulla lettiga in fondo al corridoio d’ospedale: Vanity Fair che abbiamo reinventato pagina per pagina, idea per idea, con una redazione indimenticabile e straordinaria…».
Lo scrivo?
«Puoi scriverlo perché è un fatto, non un’opinione. E poi la Gazzetta dello Sport. L’ho presa nel 2006 che stava malino, l’ho lasciata nel 2010 con un fatturato record».
I quotidiani stanno precipitando a testa in giù.
«Sono ancora fermi al millennio scorso. Gli editori pensano che buttando un po’ di zavorra, la mongolfiera tornerà ad alzarsi. Se provassero a buttare la mongolfiera e a usare un jet magari volerebbero meglio».
E quindi?
«Gli aggiustamenti non servono, bisognerebbe scavare nuove fondamenta: sono cambiati il linguaggio, i tempi di lettura, la funzione di un giornale di carta rispetto a quelli digitali. Ma cambiare costa rischi e fatica».
Lo faranno?
«Gli editori puri ci stanno provando, agli altri basta avere direttori affidabili e giornali che non disturbano».
Che rapporto hai con i politici?
«Nessuno».
E con Roma?
«Più o meno quello che ho con Teramo».
Il miglior direttore che hai conosciuto?
«Gino Palumbo. Napoletano, gentile, colto, maglioncino azzurro, parlava sempre sottovoce, ma era un leone. Ha cambiato il linguaggio del giornalismo, prima con il Corriere d’Informazione, poi con la Gazzetta: ne ha fatto un quotidiano intelligente oltre che popolare, narrativo, non solo tecnico, con una concezione sacra della libertà. Avrebbe diretto il Corriere se non si fosse ammalato. Ho provato a seguire il suo esempio».
Il direttore peggiore?
«Non ho sentito, mi stavi parlando del libro, giusto?».
Giusto. Alla fine lo hai scritto per i tuoi figli o sbaglio?
«L’ho dedicato a loro. Ma l’ho scritto per me, per gli adulti. Pensando che se almeno uno di loro leggendolo guarderà con occhi diversi un bambino mentre gioca, gli presterà attenzione un minuto di più, allora questo libro avrà raggiunto il suo scopo».
È un buon motivo.
«Grazie, abbiamo finito?».







Di Michele Serra

carlo verdelli pubblica il suo primo libro a 56 anni, pur essendo uno dei giornalisti italiani più noti e – se posso permettermi – più bravi. Non credo sia stata solo la sua riservatezza (un pudore antico, da italiano d’altri tempi) a suggerirgli di procrastinare l’esordio letterario, che è sempre un poco sconveniente perché espone ai riflettori, alle critiche frettolose e agli elogi di convenienza. Si intuisce, leggendo il suo libro, che l’esitazione, l’indugio di Verdelli sono dipesi anche da un profondo rispetto per la scrittura e per la sua potenza.
Quel rispetto è rintracciabile, del resto, anche nel suo giornalismo. Verdelli sa di parlare, quando scrive, della vita delle persone, dell’umanità che ci palpita attorno, sola farina utile a fare il pane della scrittura; e dunque è uno scrittore – da sempre – anche quando scrive sui giornali. Ma la letteratura – i giornalisti lo sanno – non è «un articolo più lungo». Ha tempi, spazi e libertà (soprattutto libertà) che aumentano la responsabilità delle parole, il loro peso, la loro «gravità». Pretende un ritmo, un respiro, un passo differenti.
Se poi si sceglie come oggetto narrativo l’infanzia, con il suo carico di sogno e durezza, di poesia e solitudine, di felicità e paura, la scommessa diventa ancora più impegnativa. Non hai scorciatoie «minimaliste»: l’infanzia è massimalista, in essa tutto è ancora intero e tutto enorme, dal primo bacio ai giochi di iniziazione, dal trionfo al tonfo, dall’esaltazione alla mortificazione, dalla fiducia totale alla cocente delusione. Di questa età sublime e fragile, luminosa come il sole e buia come l’abbandono, Verdelli si prende carico inanellando una successione di «quadri» differenti che darebbero vita al classico libro di racconti se non fosse, ogni scorcio, unito agli altri dal punto di vista infantile, da quello sguardo attento e sbigottito: perfino nelle durissime, bellissime pagine sulla morte del pugile Jacopucci, e in tutto il cruento dispiegarsi della vita adulta che ricade, con inspiegabile arbitrio, sui bambini.
È dunque, I sogni belli non si ricordano, un libro sui bambini, o meglio un libro «dei» bambini, compresi, ovviamente, i bambini che tutti siamo stati.
Il rischio del sentimentalismo e della sua velenosa secrezione (la retorica) sarebbe in agguato se Verdelli non avesse, dalla sua parte, una scrittura di invidiabile misura. Se ogni libro ha una voce, questo si fa ascoltare e amare perché non la alza mai, la sua voce. Non urla, non smania neanche quando tocca il dolore, la sconfitta e la morte.
Carlo è un milanese di popolo, non dico brusco ma certo non cerimonioso, nel suo lavoro è la sostanza che detta legge alla forma. Quando ti aspetti la sviolinata arriva la frase spiccia, la vita è la vita e non c’è molto da aggiungere, c’è tutto e anche di troppo, nella vita. C’è qualcosa di jannacciano, da marciapiede e da cortile, da giardinetto e da fabbrica in molti dei suoi personaggi, e un’asciuttezza milanese a preservarli da ogni fronzolo. Perfino quando fa il rimatore (ci sono, nel libro, diverse poesie a contrappuntare la prosa) Verdelli non si perde in bellurie. Si sente la scuola del miglior giornalismo sportivo; del cronachismo epico, quello di nera; dell’urgenza di raccontare le cose come stanno, lasciandole sempre in primo piano, le cose. La buona scrittura è quella che non prevarica mai sul proprio oggetto. Che se ne nutre, e lo serve.
E quando si riesce a conservare quella misura, quel ciglio asciutto, quell’andare all’essenziale anche nel mare aperto della narrativa, di un libro lungo più di duecento pagine, la scommessa è stravinta. Tra scrittore e lettore l’intesa è stabilita. Ci si rispetta. E si decide di rimanere insieme fino all’ultima pagina, che è la 227.