Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 12/2/2014, 12 febbraio 2014
IL PIU’ BEL FILM MAI REALIZZATO
L’altro giorno ho venduto una sceneggiatura per un euro. Ho firmato una carta e incassato la moneta in un bar a piazza Vittorio, Roma. Ci ho pagato un caffè. Avevo scritto il copione dieci anni fa. È una piccola storia esemplare che coinvolge faraoni decaduti, presidenti pazzerelli, attori fumosi, produttori buddisti per caso e, infine, l’inevitabile Silvio Berlusconi.
Rewind.
Vivevo al Cairo quando squillò il telefono. Chiamava un «regista emergente». Mi comunicò che «dovevo» scrivere il film per il suo esordio. Non gliel’aveva detto un indovino, ma un ex barbiere, persona di qualità e cortesia: ogni anno mi spediva il libro che più aveva amato leggere. Per riconoscenza verso di lui ascoltai la proposta pensando: non se ne farà nulla. Una settimana dopo il regista, Benny, era in Egitto. Aveva portato con sé una gran determinazione e un taccuino con tre appunti sul soggetto: 1. C’è una nave incagliata al largo della costa toscana (ben prima della Concordia, ndr), 2. In una grotta sotterranea una folla balla al suono di una miriade di theremin (strumento elettronico che non richiede contatto fisico, ndr2), 3. In un tempio di marmo un uomo e una donna entrano da ingressi separati, si accoppiano selvaggiamente ed escono in silenzio da dove sono arrivati. Unisci i puntini e qualcosa apparirà.
Un’altra settimana e, con la sceneggiatura intitolata «L’Uomo del Sinai», partivamo per i sopralluoghi nel deserto che avrebbe fatto da sfondo all’avventura, un fantasy spregiudicato. Nei pressi del monastero di Santa Caterina ci ospitò una bella donna di nome Nagwa, autoesiliata perché delusa dagli uomini e desiderosa di vendicarsi. «Come?», chiesi. «Mi farò padre Gregorio», rispose. Era il frate con barba e occhiali che mi aveva mostrato il luogo dove Mosè avrebbe ricevuto il decalogo. «Poi – aveva detto con voce provata – qui è arrivato il diavolo». Ci accompagnava un giovane giornalista egiziano di nome Mahmoud che aveva il vizio di mordere il bicipite delle colleghe europee. Ora dirige l’ufficio di un’agenzia di stampa internazionale. Profeticamente disse: «Non so il film, ma il “making of” è memorabile».
Tornati al Cairo cercammo finanziatori locali. Sbucò un faccendiere che possedeva, tra l’altro, un ristorante da cui spediva il catering al presidente Mubarak. Per entrare nell’impresa propose a Benny di girare un video della sua amica cantante, una rumena che si esibiva al piano di sopra. «Così sfonda a Mediaset», disse. Non ho verificato, ma non credo sia accaduto.
La sceneggiatura volò in Italia, da cui giunsero echi di presunto entusiasmo. Arrivò alla Fandango e Benny si procurò un appuntamento con Domenico Procacci. Ci ricevette con sospetto. Convocò chi l’aveva letta: Johnny Palomba. Disse: «Me pare ’n colossal». Procacci arretrò. A quel punto dalla lampada uscì un genio vero, l’uomo che aveva fatto realizzare Addio mia concubina e City of God: Don. Esportò la sceneggiatura in Inghilterra. Il produttore britannico volle conoscerci. Essendo buddista chiese di stare vicino al monastero di Pomaia. Scese dalla scaletta del volo Ryanair con l’aspetto di un batterista degli Oasis e un tappetino da yoga fucsia. Al tramonto disse (traduco a braccio): «Qui ci si rompono discretamente i coglioni, perché non andiamo a Roma?». Facemmo colazione davanti ai Fori Imperiali. Ci raggiunse un altro faccendiere, indigeno ma sposo di tre africane in successione. Spiegò che la scena della nave si poteva girare in Sardegna, ma occorreva l’appoggio dell’ex presidente Cossiga. Una delegazione si recò da lui. Approvò, a una condizione: un ruolo per Sabrina Colle. «Who?», chiese il produttore. «Nevermind», rispose Don.
Il casting proseguì, inarrestabile. Come co-protagonista ci fu il sì di Fabrizio Bentivoglio, una domenica di pioggia, in una casa romana satura di fumo e di amarezza per una sconfitta dell’Inter. Protagonista? Ralph Fiennes. Come Scajola, a sua insaputa.
Poi cominciarono i problemi. Ci furono attentati nel Sinai. Mubarak venne deposto. Il produttore inglese si sganciò. Subentrò uno spagnolo. Il set venne spostato in Bolivia. «L’Uomo di Tiwanaku» non mi sembrava diretto. Secondo Don però circolava una teoria per cui un asteroide avrebbe colpito la Terra risparmiando alcune lande boliviane e per questo molti uomini ricchi e potenti, tra cui Berlusconi, avevano comprato terre lì. Dunque: un fulcro magico. A quel
punto, persi i contatti con la stazione orbitale e non ne ho saputo più niente finché Don è riapparso con un euro in mano per comprare i diritti e rivenderli a un pubblicitario. Sembrava come sempre felice e pieno di progetti. Benny ha girato fiction di successo per la Tv. Forse è il solo ad avere qualche rimpianto per «L’Uomo del Sinai». Quanto a me non ho mai capito se avesse qualche senso o fosse soltanto un gioco pomeridiano. Lo penso tuttavia di quasi tutto quel che scrivo, o faccio. E della vita stessa.
PAUSA PUBBLICITARIA Y FINAL
Tutto quel che è la vita è un libro di James Salter edito da Guanda e consigliato da John Irving, Bret Easton Ellis, Richard Ford. E da me («D’inverno, quando faceva freddo – proseguì il vecchio – prima di salire sull’aereo versavamo la benzina per terra, le davamo fuoco e ci saltavamo dentro per riscaldarci prima di volare. Ci chiedevano: perché lo fate, non avete paura di bruciarvi? Probabilmente tra un’ora saremo morti, che differenza fa? rispondevamo»).