Elisabetta Muritti, D, la Repubblica 1/2/2014, 1 febbraio 2014
LA SCIENZA CI SALVER
È un lunedì mattina di gennaio che più milanese non si può, nebbia a mezz’asta, umidità, lo sferragliare dei treni alla stazione di Lambrate, portineria anonima, ascensore che funziona solo con la chiave. Che è estratta da una capace borsa alla Mary Poppins da Elena Cattaneo, docente ordinaria di applicazioni biotecnologiche in farmacia, studiosa di autorevolezza mondiale delle cellule staminali cerebrali, cofondatrice e direttore del centro di ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano, nonché “giovanissima” senatrice a vita, 51enne, recentemente nominata da Giorgio Napolitano. Spinge nel pianerottolo il suo trolley (in serata partirà per Roma) e sorride, perché il suo Dipartimento di Bioscienze, diventato così come lo vediamo solo dal 2008 - prima era uno spazio di 30 mq dove i ricercatori si davano i turni, domeniche comprese, per non intralciare uno gli esperimenti dell’altro - per lei è il posto più bello del mondo. E difatti è un luogo sereno, che odora di scuola pulita, con una ventina di giovani scienziati (soprattutto donne) chini sui loro banconi, tanti taccuini, i camici bianchi, i guanti gommati blu, ma anche i jeans e i caffè della macchinetta.
Sì, sereno, nonostante gli echi di guerra che circondano la senatrice, anzi, la Prof, come la chiamano qui, alle prese col black monday del Metodo Stamina , con la protesta dei movimenti oltranzisti contrari alla sperimentazione preclinica animale, col suo nuovo dovere di comunicare correttamente e umanamente una scienza sempre più ardua e al tempo stesso ideologica e travisata.
«Una sera alcuni ricercatori mi hanno detto che c’erano giù in strada un paio di animalisti ad aspettarmi, abbiamo chiamato la polizia, ma io non ho paura, l’ho detto, sono qui pronta a dimostrare che cosa debbano allo studio sugli animali le nostre ricerche sulla Còrea di Huntington, una tremenda malattia genetica neurodegenerativa, sono qui a provare che non testiamo sugli animali se non è necessario... », dice accalorandosi. «È una sfida che accetto».
Del resto, la Prof di paura non ne ha mai. Semplicemente perché, da fervente innamorata della logica, e del dubbio sistematico, non vede motivo di averne se si dicono le cose come stanno. Non ha avuto paura, lei giovane laureata in farmacia appena sposata, a partire da sola per specializzarsi a Boston, al Mit. Né di incrociare nel giro di pochi mesi la tesi per il dottorato in biotecnologie applicate alla farmacologia con la nascita della primogenita. E non ha mai tentennato nel rivendicare, lei cattolica non praticante, il diritto della ricerca a utilizzare le cellule staminali embrionali, perché sono lì, bellissime, vergini, col loro futuro ancora tutto da plasmare e da seguire.
«Bisogna allenare il pensiero critico, i fatti e le fonti ti danno la possibilità di sviluppare quei circuiti mentali che fanno sì che tu non resti condizionato». C’è un che di innocente e di temerario nella sua implacabile intelligenza, nella sua umiltà caricata a molla dall’energia: «Ci dobbiamo muovere secondo una costruzione logica del ragionamento. In modo da poter aiutare la politica, che oggi è totalmente piegata su se stessa, vittima dei suoi vizi. Credo che ci sia ancora spazio per una politica alta, e per dei “decisori” mossi dalla logica, capaci di guardare alle competenze del Paese e poi di incorporarle nelle loro decisioni. Penso che politici e intellettuali, insieme, possano cambiare la nostra storia». Ti fissa coi suoi occhi limpidi, schermati dagli occhiali con la montatura colorata, di cui fa collezione (i preferiti sono quelli azzurri). Ti depista con la sua gentilezza curiosa degli altri, senza orpelli e ipocrisie: «Sono una donna normale, che fa una vita normale, ha una famiglia normale e viene da una famiglia normale». Dai suoi genitori, un operaio specializzato della Fiat e una ragioniera, dice di aver ereditato la necessità dell’impegno: «Il mondo è prima di tutto degli altri. E noi italiani, che del mondo abbiamo avuto la parte più bella, dobbiamo riappropriarci del senso della realtà che abbiamo perso. Oggi sembra che i fatti, qui da noi, non esistano più. E pensare che la cultura e la scienza l’abbiamo inventata noi... Ma io non mollo, questo Paese è bellissimo, bellissimo da straziare il cuore».
Elena Cattaneo è sposata con Enzo, con cui ha messo su casa a Brugherio, lui è un insegnante in una scuola media («Sì, i buoni mariti esistono ancora, per fortuna»), e ha due figli, Francesca sta studiando medicina («Mi aiuta tanto, cerca di affrontare lei in anticipo i miei problemi»), Marco è ancora al liceo, chissà?, magari sceglierà una facoltà umanistica. Umanistica? Ma come, una scelta oggi così deprezzata, sconsigliata, perdente? Sgrana gli occhi, ha un’espressione quasi avvilita. «Io non ho mai pensato a separare la scienza dal pensiero umanistico. E so benissimo che le strategie della scienza arrivano dalla filosofia, dalla storia della scienza. Ogni tanto viene qui in laboratorio una giovane sociologa della scienza che stimo molto, da lei ho imparato come costruiamo una ricerca, perché lavoriamo così, perché c’è un metodo che si consolida. Nel laboratorio che sto creandomi a Roma, in Senato, ci sarà anche un bravissimo dottorando in scienze umanistiche».
Guai a dire alla Prof che è una donna fortunata. A lei la parola fortuna non piace, pensa di essersi solo data molto da fare, di aver colto al volo le occasioni che dovevano essere colte al volo e di aver cercato di non deludere le aspettative via via riposte in lei. Già, ma il tempo per la femminilità? E la fatica che incontrano a farsi largo nell’eccellenza scientifica le giovani donne, spesso brillanti negli studi, ma poi azzoppate sulla strada di una professione dura, poco retribuita, che richiede troppe rinunce alla vita privata? In America, dopo quella del “soffitto di cristallo”, hanno infatti coniato la discriminazione della leaky pipeline, la “provetta sbeccata”. Sorride, se lo aspettava. Chiede conferma che per le foto va bene vestita com’è, riconoscibile e in sostanza come al solito, giacca scura, pantaloni, camicia bianca fresca di bucato. E una silhouette minuta sempre in movimento. «Non ho mai rinunciato al mio essere una donna, certo, sono quei pochi attimi, dedicati a sentirmi ordinata, coerente, naturale. Non amo le esasperazioni, ovvio, ma mi piacciono molto le collane, le 6 ore consecutive di shopping una volta all’anno... Tutti i lunedì e tutti i giovedì, dalle 7 alle 8.20 del mattino, vado in piscina, faccio 120 vasche».
E poi continua, con quel buonsenso che è spesso rivoluzionario: «Ogni donna deve inventarsi la sua strategia, creare le sue complicità, anche se oggi, direi, ciò vale anche per i maschi: io mi sono portata i figli ai congressi, con noi c’era spesso mia suocera, hanno studiato qui con me in laboratorio la domenica pomeriggio, mi sono fatta aiutare dai miei genitori, Enzo, quando poteva, veniva lui a trovarmi in America. La prima grande complicità deve nascere in famiglia, indipendentemente che tu sia una scienziata o no, un marito non deve farti sentire in colpa se sei tornata a casa alle 10 di sera, deve semmai cooperare a una vita di coppia che esca fuori dalle solite cornici, e rompiamole ’ste cornici!, deve sviluppare una sua consapevolezza. Una donna che sta impegnandosi a dare il meglio impari a vivere la famiglia che ha voluto in modo naturale, a farla entrare nel lavoro e viceversa. Lo so, è difficile, è un panorama tutto da costruire, si può fallire, e spesso ciò significa torturarsi in due invece che da sola».
Le ricordiamo che Rodolfo Paoletti, suo preside di facoltà, tutor della sua laurea col massimo dei voti e la lode, nonché fondatore del Dipartimento di farmacologia dell’Università di Milano, quando le affidava un laboratorio le diceva di farlo rendere. Può la buona scienza generare un buon business? Si ritrae quasi addolorata: «I finanziamenti devono andare di pari passo con obiettivi e risultati. Essere redditizi significa costruire una squadra forte. Che collegialmente verifichi delle idee, non è importante sapere chi le abbia avute per primo. Il vero professionista lavora con l’ego sotto le scarpe, dà quasi più peso agli altri che a sé, cerca le soddisfazioni della squadra. Quanto a me, non mi interessa far qualcosa solo a mio vantaggio, se lo facessi mi sentirei una fallita. Pensiamo a questo laboratorio, a ciò che la scienza ha il dovere di comunicare oggi: viviamo momenti difficili ma non irrimediabili, dobbiamo cogliere tutte le occasioni di fiducia e farle fruttare, abbiamo il dovere di non darci per vinti. Non c’è alcun bottone da schiacciare, ci sono solo questi venti giovani che lavorano con me, non hanno alcun orizzonte davanti a loro ma sono qui. Un laboratorio proficuo è una questione di talenti: ti danno il 50%?, bene, tu devi restituire il triplo. Fai muovere le idee, in modo che le persone sfruttino ogni opportunità. Con la sola forza delle loro idee, appunto».
Non sarà facile trovare la squadra del cuore... La Prof sorride, ha un metodo, inossidabile perché semplice: «Io per prima do la mia fiducia, a scatola chiusa. Mi fido per natura, ritengo che il mio sia un procedimento produttivo, se ti fidi guadagni tempo. Se vengo tradita non offro una seconda possibilità. Non cerco vendetta, sono io ad andarmene. Poi magari mi giro un attimo e non vedo più nessuno, spariti tutti quelli che hanno malamente beneficiato della mia vicinanza. Pazienza. Però non dimentico, ricordo perfettamente i tre casi in cui mi sono sentita pugnalata alle spalle... Solo che non rimugino, e continuo a trovare attraente il senso di fiducia: il ricordo mi serve per essere più risoluta». Altrettanto rigorosi saranno i criteri che governano i suoi momenti di relax, no? «Relax? Quando sono in Senato mi rilasso pensando al laboratorio, quando sono in laboratorio mi rilasso pensando al Senato. Non sono ancora uscita da una porta e già non vedo l’ora di riaprirla per entrare».