Federico Rampini, D, la Repubblica 8/2/2014, 8 febbraio 2014
FERRI LA VITA È BALLO
«A 50 anni», mi dice Alessandra Ferri, «è affascinante per una ballerina poter interpretare… la propria età. Il balletto ci abitua a storie di ragazze. Per me affrontare l’età che avanza è molto bello». Da qui comincia il mio incontro con la Ferri a New York, nel bar del teatro Signature sulla 42esima Strada. L’accoglienza trionfale che la critica americana riserva al suo ritorno in scena, prescinde dall’età.
Dal NewYork Times al Wall Street Journal gli esperti sono unanimi: la Ferri è sublime come sempre, quasi che non avesse smesso di ballare neppure per poche settimane. Ma la questione dell’età per me è fondamentale. Nella sua arte, che è fatta anche di fisicità, agilità, flessibilità e forza muscolare, gli anni non sono un dettaglio. Prima sono andato a vederla in scena: attirato dai ricordi che avevo di lei ai tempi in cui era la star della Scala («una delle più grandi ballerine drammatiche di tutti i tempi», la definisce Gia Kourlas sul NewYork Times). Ero rassicurato dall’accoglienza entusiasta della stampa americana che non fa sconti a nessuno, figurarsi una ballerina che decide il clamoroso ritorno dopo quasi sette anni di assenza. Una volta alzato il sipario sono stato soggiogato. Non solo dalla sublime leggerezza delle sue mosse in scena, ma anche dalla storia così adatta per un ritorno a 50 anni. «Quando la regista e coreografa Martha Clarke mi ha proposto questo Chéri», racconta la Ferri, «l’idea mi è piaciuta subito. Mi sono rispecchiata nel personaggio di Léa, una donna matura. Una storia in parte autobiografica, perché Colette stessa ebbe una relazione con un ragazzo giovanissimo. La sua Léa mi piace perché accetta l’invecchiamento con serenità. Anche nel secondo romanzo, il seguito che s’intitola La fin de Chéri, la ritroviamo ingrassata, coi capelli bianchi, ma sempre allegra». Romanzi scabrosi all’epoca in cui Colette li scriveva, poco dopo la prima guerra mondiale. Proto-femminista, l’autrice, anche per la sua vita sentimentale in aperto conflitto coi costumi del suo tempo. Di Colette c’è tutta l’energia, nel balletto che Ferri e Clarke hanno creato insieme. «Abbiamo lavorato sull’emozione erotica che si sprigiona da quei libri», dice la ballerina, che sulla scena è affiancata dal giovane partner Herman Cornejo.
Il mistero che mi attira, è capire cos’è successo dentro Alessandra Ferri dalla sua ultima «radiosa Giulietta», come la celebrò il NewYork Times, alla Metropolitan Opera nel giugno del 2007. Come accade, che una ballerina di fama mondiale possa dare l’addio al suo mondo, restare fedele a quel proposito per così tanti anni, e poi decidere un ritorno ad alto rischio? «Quando smisi», racconta la Ferri, «sentivo che quell’Alessandra era finita. Un capitolo era terminato per me. Sentivo che Carmen, Giulietta, Manon, tutti i personaggi che mi avevano accompagnato, non mi appartenevano più. Ho avuto un fase di lutto. Poi un’altra, di sollievo. Mi sono occupata delle mie bambine, ho curato aspetti della vita che erano stati secondari rispetto alla carriera. E poi, terza fase: essendo nata artista, ho cominciato a soffocare. Non è la scena, non è il pubblico, è proprio il ballare, il bisogno di vibrare, quello che mi mancava. Ora, quello che sto facendo non è un ritorno indietro, sono cose nuove. Mi attira il teatro, anche se non sono attrice e continuo a esprimermi con i miei strumenti».
C’è stato un primo rientro in scena l’estate scorsa, al festival di Spoleto, nello spettacolo di danza-teatro The Piano Upstairs di John Weidman. Un evento che coincideva con una svolta nella sua vita. «The Piano Upstairs », dice, «racconta la fine di un matrimonio. E proprio mentre costruivamo quello spettacolo, si concludeva il mio rapporto con Fabrizio Ferri, dopo 16 anni di matrimonio e due figlie. Il progetto teatrale con Weidman ha avuto una gestazione di due-tre anni, all’inizio dei quali io e Fabrizio stavamo felicemente insieme. La fine del nostro matrimonio ha combaciato con la rappresentazione in scena». La vita continua, il teatro anche: la prossima sfida per Alessandra si chiama Eleonora Duse, sarà uno spettacolo dedicato alla grande attrice che ebbe relazioni sentimentali con Gabriele D’Annunzio, Arrigo Boito, ma anche con altre donne, scrittrici e attrici.
In quanto a vita privata: m’incuriosisce il legame con questa città. La Ferri è newyorchese da molto prima di me. Ha vissuto una Manhattan d’altri tempi, con sacche di povertà molto più estese, una metropoli degradata e violenta, quasi irriconoscibile rispetto a oggi. Ma è un’altra durezza, quella che lei ricorda. «Arrivai nel 1985 e da allora ho sempre avuto casa qui, compresi i lunghi periodi in cui lavoravo anche alla Scala (oltre che all’American Ballet Theater diretto da Mikhail Baryshnikov, ndr). Il mio non fu amore a prima vista. Venivo da Londra, dove mi ero formata da ragazza, trovai New York dura dal punto di vista umano, anche nel mio ambiente lavorativo. In quel senso è rimasta una città dura: qui, o ce la fai o non ce la fai, se non sei all’altezza c’è un’altra che aspetta dietro di te di prenderti il posto. Io, fortunatamente, ce l’ho fatta… Essendo un Toro di segno zodiacale, mi sono impuntata. E ho imparato come sopravvivere: a New York devi crearti una città dentro la città, ti ritagli la tua realtà fra le mille che sono possibili qui. Ora ci sto benissimo, dopo quasi trent’anni. La trovo stimolante. Il mondo che ruota attorno al teatro è semplicemente meraviglioso».
Mentre lo dice Alessandra si guarda attorno: il Signature Theater dove c’incontriamo è uno dei tanti luoghi di cultura nati di recente, una delle miriadi di iniziative che questa metropoli continua a partorire a getto continuo. Il confronto con il mondo antico da cui veniamo? Inevitabile e amaro. «In Italia», sospira, «tutto sembra così difficile mentre qui tutto è possibile». Mi confida la sua amarezza per un’Italia amata dagli americani in virtù delle sue ricchezze culturali, e che proprio alla cultura continua a tagliare risorse. «Un paese lo salvi solo innalzando il livello culturale, e non sta accadendo». La costringo a paragoni più precisi fra la sua Scala e l’American Ballet Theater, due istituzioni venerabili a cui ha dedicato gran parte della carriera. «Qui in America», risponde, «è tutto privato. Quindi, da un certo punto di vista, è tutto precario. All’American Ballet Theater ci furono anni buoni, altri meno, a seconda delle donazioni private che affluivano. Ma la volontà di tutti era di far funzionare le cose al meglio. In Italia c’è qualcosa di negativo nell’atmosfera generale e anche nelle persone. Qui è tutto l’opposto: prevale il voler portare a termine. Per me è questa la grande differenza. Alle volte in Italia percepisco una sorta di snobismo che impedisce di fare le cose».
Non sono discorsi da emigrati di lusso che sputano sulle proprie origini. La Ferri si sente italiana e milanese fino al midollo (Porta Genova il suo quartiere originario, la mamma vive a Monza). Pur mettendo radici qui a New York, d’accordo con il marito decise di iscrivere le due figlie (che oggi hanno 16 e 12 anni) alla Scuola d’Italia. Una scelta non scontata, visto l’ampio ventaglio di scuole internazionali che offre New York. «Non saremmo stati a nostro agio, io e Fabrizio, a far crescere due ragazzine americane. L’imprint culturale è importante. Crescere italiani a New York, per me vuol dire unire il meglio dei due mondi. Oggi le mie figlie si sentono perfettamente italiane e ne vado fiera».
Riporto la conversazione al punto di partenza (mi appassiona per ovvie ragioni): la sfida con l’età. Le chiedo se ha avuto un attimo di panico prima di affrontare il pubblico dopo un’assenza di tanti anni. «Ah, il panico! Quello lo conosco bene. Mi ha accompagnato per una vita, ero terrorizzata dalla scena. L’angoscia fu proprio una delle ragioni per cui diedi l’addio nel 2007. E ora? Ho scoperto di essere… guarita. Sono proprio in un altro mondo. Per la prima volta non ho più paura. Forse perché ora sento che lo sto facendo solo per me stessa». Non posso risparmiarle domande spudorate. Uno come me, che pratica da sempre yoga e maratona ma resta un povero dilettante, viene preso da una sorta di stupore mistico, di vertigine, nell’osservare la Ferri in scena. Quell’agilità. L’eleganza. Quei polpacci magrissimi eppure con muscoli d’acciaio. I tendini! Le articolazioni! Come diavolo fa a cinquant’anni? Non sente i sei anni d’inattività come un handicap irrecuperabile? «Aha! È come la bicicletta: quando sono tornata in scena mi pareva di non aver mai smesso. La verità è che non ho mai smesso sul serio. Cioè, non è che mi sono alzata dal letto dopo sei anni d’immobilità! Anche dopo l’addio alle scene, tutti i giorni facevo due ore di lezione di ballo col mio maestro personale. Più: pilates, yoga, e gyrotonics, discipline complementari e indispensabili per curare l’elasticità delle articolazioni, la spina dorsale». Non ho difficoltà a crederle quando mi descrive il suo corpo «come una Ferrari o un cavallo purosangue», ovvero uno strumento «da tenere sempre accordato, col lavoro di un intero team». Perché «solo con la perfezione dello strumento, arrivi alla libertà di esprimere in scena tutto quello che vuoi dire».
Alessandra sta per lasciarmi, mancano due ore allo spettacolo ma sono le due ore che lei usa per scaldare i muscoli. Le strappo un’ultima risposta, consigli per noi umani. Cosa mangia? «Di tutto e di più. Da quando sono tornata a ballare ho una fame che non ci vedo. Ora mangerei le gambe di questo tavolo».