Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 12/2/2014, 12 febbraio 2014
IL FLOP DELLA LEGISLAZIONE CONCORRENTE
Una deriva senza fine. Dall’attuazione del Titolo V le spese delle Regioni e le loro entrate fiscali hanno continuato a moltiplicarsi aggravando così sia l’uno che l’altro fardello. Non solo. Si è ingolfato, al punto talora da incepparsi, per via delle nuove prerogative degli enti territoriali, esercitate in più d’un caso come altrettanti poteri singoli di veto, l’iter procedurale anche per alcune infrastrutture strategiche a rete di rilevanza nazionale. Col risultato che si sono aggiunti altri costi indiretti (come quelli delle "compensazioni") e soprattutto pesanti impacci a scapito della competitività generale del sistema-Paese. In pratica, la "legislazione concorrente", che avrebbe dovuto riequilibrare e snellire i rapporti fra centro e periferia, tramite una chiara separazione di competenze e funzioni, ha finito invece per produrre una congerie di sovrapposizioni e incongruenze, di doppioni e conflitti istituzionali. E ciò per oltre una ventina di aree d’intervento, comprese quelle riguardanti i rapporti internazionali e il commercio estero.
Eppure, quando nel marzo 2001, nell’imminenza delle elezioni politiche, venne varato dal Parlamento il nuovo ordinamento federale (sia pur con l’esigua maggioranza del centro-sinistra) e poi approvato in ottobre da un referendum popolare (anche se con una scarsa affluenza di votanti), si pensava che un maggiore coinvolgimento degli enti territoriali nella governance della finanza pubblica avrebbe garantito sia una gestione più responsabilizzata ed efficiente delle risorse sia uno standard, su scala nazionale, più omogeneo in fatto di prestazioni e a un costo minore.
Oltre a questi vantaggi concreti, si riteneva che una struttura statuale imperniata su forme più ampie di decentramento, quale prevista dal Titolo V della Costituzione, avrebbe avvicinato di più i cittadini alle istituzioni e promosso la sussidiarietà e la paritarietà fra i diversi livelli territoriali di governo.
Senonché è avvenuto tutto il contrario. Da un lato, è cresciuta con effetti opprimenti la foresta di normative e formalità burocratiche che hanno ingarbugliato i meccanismi e dilatato i costi della gestione politica e amministrativa. Dall’altro, abbiamo assistito, invece che a un miglioramento dei rapporti della collettività con le istituzioni, a un peggioramento della situazione a causa di un’ondata di sfiducia e insofferenza alimentata dai reiterati episodi di incuria e di cattiva gestione, di clientelismo e di corruzione, che hanno contrassegnato in varia misura l’operato di numerose amministrazioni regionali di diversa colorazione.
Tuttavia c’è voluto parecchio tempo, nonostante l’incancrenirsi di queste piaghe, perché maturasse infine la decisione di procedere a una riforma del Titolo V. C’è pertanto da augurarsi che, in base al disegno di legge presentato dal governo Letta all’esame del Parlamento, venga abolita la "legislazione concorrente", rivelatasi fonte di iper-regolamentazioni contraddittorie e di crescenti oneri addizionali, col ritorno alla competenza esclusiva dello Stato di materie fondamentali (a cominciare dall’energia, i trasporti e la ricerca scientifica), e si giunga all’istituzione, al posto del Senato elettivo, di una "Camera delle Autonomie", in cui i rappresentanti delle Regioni, collaborando alla definizione delle variabili territoriali delle politiche nazionali, quanto agli ambiti di loro pertinenza, siano così impegnati ad applicarle debitamente ed efficacemente in sede locale. Insieme all’attribuzione alle Province (che oggi sono ben centodieci) di una sola competenza (quella sulle strade) e alla loro trasformazione in enti di servizio ai Comuni, la creazione nelle principali aree urbane di "Città metropolitane", con un ruolo propulsivo di pianificazione dello sviluppo, costituirebbe senz’altro un importante salto di qualità. Rimane tuttavia da sciogliere un altro nodo spinoso: quello del cosiddetto "capitalismo municipale".
Le società estremamente eterogenee, partecipate direttamente o indirettamente da Enti pubblici locali (Regioni, Province, Comuni e Comunità montane), sono andate costantemente aumentando di numero, malgrado gli interventi governativi, più o meno risoluti ma anche ondivaghi e sovente respinti al mittente, per frenarne la proliferazione e invertire questa tendenza. Perciò è ancor oggi difficile (come risulta da un’indagine curata da Giuseppe Mele per la Confindustria) stabilire con esattezza le dimensioni effettive di questo fenomeno espansivo col suo vasto perimetro circostante. Fatto sta che varie anomalie contrassegnano, salvo alcune eccezioni, gli Enti locali controllati dalla mano pubblica, dato che quelli addetti ai servizi preminenti (energia, trasporto, rifiuti urbani, settore infrastrutturale idrico) esercitano la loro attività in base a gare scarsamente aperte al mercato e quindi anche ai soggetti privati; che essi accusano per lo più passivi di bilancio (senza assicurare peraltro adeguate prestazioni agli utenti), soprattutto nel Mezzogiorno, ripianati in pratica a carico della fiscalità generale; che esistono in parecchi casi commistioni di ruoli fra regolatore e regolato; che non tutte le loro aree operative riguardano le "local utility", ma si estendono dall’agricoltura al comparto manifatturiero, dalla finanza alle costruzioni.
Si tratta dunque di un autentico ginepraio, di crescente ampiezza e con un rilevante impatto finanziario, che si è riusciti a fare ben poco per ridimensionare e disboscare.