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 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

UNA COLOMBA PIENA DI BOLLE


La "colomba" Janet Yellen si è presentata per la prima volta al Congresso. E da presidente della Federal Reserve ha confermato la sua fama, appunto, di colomba: una fama ampiamente guadagnata nei molti anni di presenza al direttorio della Banca centrale americana.

A differenza di quel che successe di recente alla colomba papale, nessun corvo o nessun falco l’ha aggredita, e questa mancanza di aggressività non è dovuta alla galanteria. È dovuta al fatto che corvi o falchi hanno la coda fra le gambe o, per meglio dire, fra le zampe: tutte le tristi profezie su quel che avrebbe portato la politica iper-espansiva della Banca centrale americana - inflazione alle stelle e/o crollo del dollaro - non si sono verificate. E la Federal Reserve, che ha la fortuna di avere un doppio mandato - minima inflazione e massima occupazione - ha affrontato la più grave crisi dagli anni Trenta cercando di tener fede alla sua missione e riscrivendo il manuale del buon banchiere centrale.
Janet Yellen succede a Ben Bernanke e ad Alan Greenspan. I due predecessori hanno dovuto affrontare una bolla: Greenspan la bolla borsistica a cavallo del millennio, e Bernanke la bolla immobiliare alla metà del decennio scorso. E la Yellen, secondo alcuni, è corresponsabile di un’altra bolla: i mercati azionari, spinti dalla liquidità creata dalla Fed, sono saliti troppo.
«Homo bulla est», disse Marco Terenzio Varrone, ma (quasi) tutti sono d’accordo sul fatto che le bolle non sono una bella cosa. Anche se fanno parte della natura umana - quel nesso di cupidigia, euforia, fuga e panico che spesso fa strame dell’asettico concetto di un razionale homo oeconomicus - i banchieri centrali si sono spesso domandati cosa devono fare di fronte alle bolle. Alan Greenspan aveva pochi dubbi in proposito, e il 30 agosto del 2002, all’annuale simposio dei banchieri centrali nelle Montagne Rocciose (a Jackson Hole), espose una rocciosa difesa dell’operato della Fed rispetto alla bolla recente della Borsa. In fine XX secolo i rapporti prezzi/utili di Wall Street avevano raggiunto livelli incredibili, quasi doppi rispetto a quelli parossistici dell’estate del 1929, prima del grande crollo. Quelle assurdità si andarono poi disfacendo, lasciando sul campo morti e feriti: troppi investimenti sbagliati, fatti quando il capitale di rischio non costava niente; immensi tagli alla ricchezza azionaria; una mentalità dell’arricchimento facile; deficit pubblici resi necessari dal pronto soccorso a un’economia indebolita. Bisognava, quella bolla, strozzarla nella culla?
La risposta di Greenspan fu quella di defilarsi: disse, nel luglio 1999, quando le quotazioni ribollivano, «identificare una bolla che si gonfia è una sfida formidabile per una Banca centrale: getta il guanto del suo giudizio contro il giudizio collettivo di milioni di investitori». Un placido distacco che ricorda quello di un economista di Princeton, Joseph Lawrence, che nel luglio 1929 (tre mesi prima del crollo), scriveva: «Il consenso del giudizio di milioni di investitori in quell’ammirevole mercato, la Borsa di Wall Street, è che i titoli azionari non sono sopravvalutati».
In quel discorso del 2002 Greenspan ripeté gli stessi concetti: si scopre che una bolla c’era solo quando è scoppiata e anche se la Fed l’avesse voluta sgonfiare non avrebbe saputo come farlo, a meno di strangolare l’economia. Il che sarà anche vero, ma Greenspan fu smentito da Greenspan. I verbali, parola per parola, delle riunioni della Fed non sono segreti di Stato. O meglio, lo sono per cinque anni, dopo di che vengono resi pubblici. Nei verbali della riunione del Federal Open Market Committee del 24 settembre 1996, poche settimane prima del monito sulla «esuberanza irrazionale», si legge che Alan Greenspan conveniva sull’esistenza della bolla, si dichiarava esitante a punzecchiarla, e affermava però che «abbiamo la possibilità di gettare dubbi alzando i margin requirement. Garantisco che se volete sbarazzarvi della bolla, quale che essa sia, questo funziona». Chissà, forse la sciapa ramanzina sull’esuberanza irrazionale, se fosse stata condita da più alti margini, avrebbe risparmiato molti dolori.
«Sir Printalot»: così alcuni soprannominarono Alan Greenspan, data la sua tendenza a sostenere i mercati con una politica monetaria espansiva. Ma che cosa si dovrebbe dire allora di Ben Bernanke, sotto la cui direzione la Fed ha visto il suo portafoglio titoli esplodere a più di 4mila miliardi di dollari? Ma il nomignolo di Sir Printalot - con il suo carico derisorio - sarebbe ingiusto se applicato a Bernanke. Di fronte alle devastazioni della Grande recessione la risposta della Banca centrale è stata da manuale, o, per meglio dire, da nuovo manuale: tassi a breve a zero, acquisti di titoli per schiacciare anche i tassi a lunga, assicurazioni sul mantenimento di tassi bassi per molto tempo, collegamento fra variabili reali e monetarie. E l’economia americana sta rialzando la testa con l’inflazione a minimi storici.
Alcuni pensano, come detto, che la liquidità della Fed abbia creato bolle azionarie. Ma, a parte il fatto che dall’anno dell’esuberanza irrazionale a oggi profitti e prezzi di Borsa a Wall Street sono saliti di conserva, è difficile arguire che in giro per il mondo ci sia odore di bolla. Quello che ci vuole è una mano ferma sul timone della Fed. Nella sala d’armi della Banca centrale non ci sono solo le tubature per irrorare il mondo di liquidità. Ci sono anche i mezzi per prosciugarla. E possiamo aver fiducia in Janet Yellen nel decidere il momento in cui l’economia potrà camminare con le sue gambe, in cui si potranno chiudere i rubinetti e mettere in funzione le idrovore.