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 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

«DOPO LA SOSPENSIONE TORNO A FARE L’AVVOCATO SEMPRE CONTRO IL CAV»


La memoria corta di Antonio Di Pietro. Ieri, alla prima udienza del processo contro Silvio Berlusconi per la presunta compravendita di senatori, che coinvolge, oltre all’ex direttore dell’Avanti Valter Lavitola anche l’ex senatore dell’Italia dei Valori, Sergio De Gregorio, «l’accusatore ritardatario» del Cavaliere, Di Pietro, che come rappresentante dell’Idv si è costituito parte civile, ha candidamente affermato: «Rimetto la toga dopo Mani pulite, sto per la prima volta dall’altra parte come difensore di parte civile. È come ai tempi di Tangentopoli». Il punto, però, è che per l’ex «star» di Tangentopoli, indossare la toga di avvocato di parte civile non è affatto una prima. Di Pietro, infatti, nel lontano 2002, fu protagonista di una vicenda legale imbarazzante che finì con la sua sospensione da avvocato decisa dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bergamo. La sua «colpa» fu quella di assumere la difesa di un suo vecchio amico d’infanzia, a cui era stata uccisa la moglie, per poi «mollarlo» non appena intuì che proprio l’amico poteva aver commesso l’omicidio. E così, in tribunale, l’amico si ritrovò Di Pietro dall’altra parte della barricata come avvocato di parte civile.
Di Pietro, un ritorno al passato il suo. Come mai la scelta di indossare di nuovo la toga anche se come avvocato?
«La toga l’ho sempre tenuta nel cuore. Si è magistrati per sempre quando si è fatto il proprio dovere in buona fede. Oggi sentivo il dovere di indossarla per difendere non tanto le ragioni dell’Idv, tradite da una persona candidata nelle nostre liste e poi vendutasi per qualche milione di euro a un leader di partito che vuole guidare il paese e riformare la costituzione non rivolgendosi agli elettori ma corrompendo un deputato, quanto per “denunciare” un reato che non dovrebbe essere chiamato di corruzione ma di omicidio politico, perché così si uccide la democrazia. Sentivo di farlo sentendomi più pm che difensore».
Lei ha affermato che si è sentito come ai tempi di Tangentopoli. Ma Tangentopoli, in definitiva, è stato un fallimento. Non teme che, con questo paragone, possa portarsi iella da solo?
«Spesso si confonde Tangentopoli con Mani pulite, che è come confondere il tumore col medico che diagnostica la malattia. Noi pm siamo stati i dottori che hanno diagnosticato il tumore della corruzione sociale, un tumore che si chiama Tangentopoli, che oggi è peggio di prima perché si è “ingegnerizzato” ed è quindi più difficile da scoprire»
Ha anche sostenuto che per la prima volta sta “dall’altra parte come parte civile”. Ma nel 2002 non assunse la difesa di un suo amico, Pasqualino Cianci, per poi “mollarlo” passando dalla parte della pubblica accusa come parte civile, tanto che per questo fu sospeso per tre mesi dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bergamo?
«Le dico io com’è andata. Circa dieci anni fa ebbi modo, su richiesta della famiglia e come parte civile, di difendere i parenti di una vicina di casa che era stata uccisa, una mia amica che ricordo ancora quando pascolava le pecore. Assunsi, dunque, la difesa delle parti offese. In quelle vesti cercai di scoprire chi fosse l’assassino e capii che era stato il marito, che poi venne condannato per omicidio. Anche lui mi aveva conferito il mandato, così come i figli, la sorella e il fratello della vittima. Così andarono le cose. Rispetto la decisione dell’Ordine degli avvocati, ma è un provvedimento che non rispecchia la verità dei fatti, in quanto, dovendo difendere la parte offesa, ed essendo le parti offese quattro, non è colpa mia se una di esse ha fatto il doppio gioco per coprirsi meglio, dandomi il mandato per poi rivelarsi essere l’assassino. E a scoprirlo fui io, con le mie indagini, perché non mi limitai a fare il notaio, e poi segnalai tutto alla magistratura. Era doveroso farlo anche in nome degli altri parenti che mi avevano dato l’incarico».
Eppure l’Ordine bergamasco parlò di violazione «di doveri di lealtà, correttezza e fedeltà nei confronti della parte assistita» oltre che del codice deontologico forense.
«Credo perché, quando l’Ordine prese la sua decisione, non aveva in mano, perché non poteva averli, tutti gli atti del processo, visto che eravamo ancora in fase istruttoria e non poteva sapere come sarebbero andate a finire le cose».
Ma se era convinto di avere ragione e di trovarsi di fronte a una decisione ingiusta, perché non ha presentato ricorso?
«Ci passai sopra, non feci ricorso perché non c’era nessuna ragione per farlo. Ne presi atto con rispetto. Riconosco la loro buona fede e non porto nessun rancore. E poi non volevo fare polemiche. Sono cose che capitano quando si sovrappongono attività istruttorie diverse. Io avevo rispetto per il dramma di quella famiglia. Presentando ricorso avrei dovuto chiamarli in causa e non me la sono sentita. Ho rispettato il loro dolore. E poi, dopo la sentenza di condanna per l’omicidio, ero consapevole di avere avuto ragione nei fatti».