Giuseppe Pollicelli, Libero 12/2/2014, 12 febbraio 2014
JOHN, 4 ANNI INFILTRATO FRA I BOSS L’AGENTE FBI CHE HA FREGATO IL CLAN
Quando Johnny l’americano inizia a stringere rapporti con Franco Lupoi, boss dei clan calabresi negli Stati Uniti, ha ben chiaro in mente un fatto: tutto cambia ed evolve, anche la criminalità organizzata. La stessa mafia non è più quella di una volta: lo sappiamo noi, figuriamoci Johnny l’americano. E certe consuetudini che prima si davano per scontate oggi non valgono più. La faccenda dei paisà, per esempio. Un tempo una delle regole di base di Cosa nostra, così come della camorra e della ’ndrangheta, era che mai, per nessun motivo, ci si dovesse fidare di chi non era un paisà. Di chi, cioè, non avesse chiare e verificabili ascendenze italiane. Perfino di un paisà non è detto ci si potesse fidare sempre, sia chiaro: bisognava verificare. Ma se uno non era un paisà il discorso era morto sul nascere.
Adesso si ragiona in altro modo, perché pure il crimine (forse soprattutto il crimine) si è globalizzato, e a nessuno deve importargliene più niente se l’alleato, il complice, l’interlocutore sono italiani oppure di qualche altra parte del mondo, magari cinesi o russi o di uno quei posti strani usciti fuori dopo che è venuta giù l’Unione Sovietica, vattelapesca come si chiamano di preciso. Quello che conta, oggi, sono i quattrini. Ci sono i soldi? Benissimo: si procede. E tanti saluti alla vecchia regola del paisà. E allora, sapendo perfettamente tutto questo, Johnny l’americano ha gioco facile ad agganciare a New York il boss Franco Lupoi. Era la primavera del 2010: al boss Johnny pare subito un tipo giusto, uno con cui si possono intavolare dei bei commerci da cui ricavare denaro a palate. Magari coinvolgendo pure qualche abituale compagno di business, tipo la famiglia siciliana dei Gambino. Perciò, quando Johnny gli chiede di rifornirlo di grosse quantità di droga, in particolare eroina, promettendo in cambio pagamenti immediati, a Lupoi non pare vero di poter intraprendere questo signor affare.
E così Lupoi, che è un uomo degli Ursino di Gioiosa Jonica, se ne parte per la sua Calabria e inizia ad avviare la pratica. Siccome le cose procedono bene, a un certo punto giunge in Calabria lo stesso Johnny: le parti s’incontrano, si piacciono e gli accordi si concludono. È uno talmente a posto, Johnny, che i clan cominciano a invitarlo ai loro cenoni in cui l’imperativo è uno solo: strafogarsi. E durante queste abbuffate capita addirittura che gli raccontino qualcuno dei loro affari. Un rapporto solido, dunque, e se Johnny si dice non del tutto soddisfatto di ciò che i calabresi gli hanno procurato, nessun problema: a fronte di un’operazione da quattro o cinque chili di droga al mese, loro s’impegnano a trovargli roba di qualità superiore. La roba, puntuale, arriva e Johnny, altrettanto puntualmente, paga: 30.000 dollari e tutti contenti. Poi, però, Johnny prende la roba e la consegna agli agenti della Squadra Mobile guidata da Gennaro Semeraro. Già, perché Johnny l’americano è uno di quei pazzi che, nella vita, fanno l’agente sotto copertura. Sì, insomma, l’infiltrato. Sì, insomma, l’infiltrato, come Johnny Depp in «Donnie Brasco» o Tim Roth ne «Le iene». Quindi altro che bravo picciotto: Johnny era una dannatissima talpa dell’FBI, e prima di condividere quelle omeriche cene con i «bravi ragazzi» faceva piazzare dappertutto microspie grazie alle quali i segreti dei boss smettevano, per le orecchie della polizia, di essere tali.
Quasi quattro anni di missione svolta in modo perfetto, quella di Johnny, che ieri ha portato al fermo di 24 persone fra Italia e New Yorke ha consentito ai magistrati calabresi, in collaborazione con i loro colleghi americani, di scoprire che il business principale degli Ursino non è l’eroina ma la cocaina. Forse, tra i clan della Calabria, qualcuno starà prendendo seriamente in considerazione l’ipotesi di rispolverarla, quella vecchia regola sui paisà…