Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 12 Mercoledì calendario

COME SIAMO ARRIVATI AL “FOTTITI EUROPA”


SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («... and you know, fuck the EU»).
Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.
Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie. Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza.
In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera — l’»estero vicino », come viene chiamato in Russia — né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopoguerrafredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre
cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria.
Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» (Sole 24 ore, 25-1-14).
L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio.
La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione.
Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.
Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra.
Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi. Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia.
In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particolare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.
Nel nostro piccolo, noi italiani non siamo da meno e addirittura diventiamo esemplari, come dimostra il caso dei marò processati in India. Sono due anni che Roma insiste per farli tornare a casa: è quasi l’unica nostra attività di politica estera, e anche in questo caso manca qualsiasi strategia politica, che tenga conto del mondo in mutazione e dell’importanza che ha oggi l’India. La giustizia indiana — è vero — sembra messa peggio della nostra. L’accusa di terrorismo è brandita con fini interni. Ma le responsabilità vanno chiarite, e anche qui offendersi e sgomentarsi è vano. Anche qui manca una valutazione fredda della realtà indiana, e di quel che è successo nei mari del Kerala. Solo nascoste in rete — nel sito Wu Ming — troviamo vere documentazioni sulla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre: due militari utilizzati dal nazionalismo indiano, ma che hanno pur sempre causato la morte, il 15 febbraio 2012, di due pescatori indiani inermi (hanno anch’essi un nome: Valentine Jalastine e Ajish Binki).
È sperabile che la giustizia indiana non li condanni — se colpevoli — a pene pesanti (sulla condanna a morte esiste un veto dell’Unione) ma non ha senso continuare a chiamarli eroi nazionali. È comprensibile la convinzione di Napolitano, anche se da verificare, secondo cui l’affare è stato «gestito in modi contraddittori e sconcertanti» dall’India: l’accusa di terrorismo, se mantenuta, non tiene. È assai meno comprensibile la promessa che ha fatto telefonicamente ai due fucilieri: «Tornerete (in Italia) con onore».
Perché con onore, prima di conoscere il verdetto indiano e le motivazioni di un’eventuale condanna? Può darsi che i marò rientrino in Italia. Non è detto che vi tornino con onore, fino a che non abbiamo prove decisive su quanto accaduto il giorno dell’uccisione dei pescatori indiani. È quello che ha scritto Ferdinando Camon su La Stampa (Perché i marò non hanno un video?, 5 febbraio): i marinai colpiti dai fucilieri sostengono che gli è piovuta addosso una gragnuola di colpi senza preavviso, l’emissario italiano Staffan de Mistura ha ammesso in una tv indiana che «i nostri hanno sparato in acqua, ma purtroppo alcuni colpi sono andati nella direzione sbagliata». Fondatamente Camon sostiene che avrebbero dovuto sparare in aria, cioè a vuoto, se si voleva solo preavvertire: «I colpi orizzontali non sai mai dove finiscono». Non esistono infine video probanti, che certifichino la tesi dell’innocenza.
Citiamo il caso dei marò per dire che la politica estera sta divenendo in Europa questione di visibilità partitiche. Giustamente il giornalista Matteo Miavaldi, che vive in Bengala, è caporedattore del sito China Files e ha indagato per Wu Ming i dettagli della storia dei marò, ricorda che le destre di La Russa o Gasparri usano l’affare per propagare risentimenti nazionalisti. In queste condizioni non stupiamoci più di tanto, se d’un tratto s’alza in piedi un vicesegretario di Stato americano per scaraventarci addosso parole oscene.