Francesco Manacorda, La Stampa 11/2/2014, 11 febbraio 2014
L’ESTATE 2011 E UN PAESE SENZA MEMORIA
È un Paese senza memoria quello che ha già archiviato il fatto che appena due anni e mezzo fa - nel terribile semestre prima del novembre 2011 - non solo l’Italia fosse sull’orlo di un baratro finanziario, ma anche i governi europei, e non esclusivamente europei, vedessero il nostro Paese portatore di un pericoloso contagio da instabilità che rischiava di toccare l’intero continente.
Da dove partire, allora, per ricordare il clima mefitico di qui mesi, con l’assedio dei mercati e il montante disagio delle cancellerie internazionali? Magari dal passo più prossimo alla fine, da quella surreale conferenza stampa del 4 novembre al G20 di Cannes dove il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi («niente crisi, i ristoranti sono pieni») e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si ritrovano accanto senza che i loro sguardi s’incrocino e dove mezza stampa internazionale - pur smentita - assicura di aver sentito Tremonti dire al suo premier che se non se ne va al più presto sarà il disastro. Otto giorni dopo, è il 12 novembre, Berlusconi rassegna le sue dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica. L’8 novembre il nostro governo ha firmato il pacchetto di sei misure destinate a rafforzare il Patto di stabilità europeo, mentre il 9 novembre lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi, uno dei principali indicatori del grado di fiducia nella solvibilità dell’Italia, ha toccato un livello mai più raggiunto: 575 punti.
Oppure si può saltare al fotogramma precedente, a quel 23 ottobre in cui rispondendo a centinaia di giornalisti dopo il vertice europeo Angela Merkel e Nicolas Sarkozy si scambiano un’occhiata d’intesa e un risolino beffardo quando gli viene chiesto se Berlusconi ha dato rassicurazioni sulla situazione dell’Italia. Anche qui passeranno pochi giorni prima che, il 26 dello stesso mese, il governo italiano si debba presentare con una lettera di impegni - peraltro corretta perché Bruxelles non la considerava abbastanza incisiva - alla Commissione europea.
Ma si può risalire anche a ben prima nell’elenco di segnali chiarissimi che la gestione dell’Italia, con il suo enorme debito pubblico e un peso specifico della sua economia che non limiterebbe gli effetti di un’implosione a quelli - pur gravi - del caso greco, allarmano oltre ogni dire i partner europei e gli investitori esteri. Eccoci al 6 agosto, quando al governo italiano arriva la lettera firmata dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet e da Mario Draghi, alla guida della Banca d’Italia ma già successore in pectore di Trichet. Non ci sono solo richieste durissime negli indirizzi generali della finanza pubblica, prima fra tutte quella di raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013 e non più entro il 2014, ma anche misure dettagliate che sanno davvero di commissariamento: riduzione significativa dei dipendenti pubblici, prendendo in considerazione anche riduzioni di stipendio; piena liberalizzazione degli ordini professionali; una programma forte di privatizzazioni... Del resto già il 6 giugno, sul nostro giornale, il Governatore della Banca centrale del Lussemburgo Yves Mersch e membro ovviamente del direttorio della Bce, intervistato da Tonia Mastrobuoni annuncia che la Banca centrale potrebbe anche smettere di comprare titoli di Stato italiani, per sostenerne le quotazioni, se Palazzo Chigi non mette mano alle riforme. E’ un altro segnale che rimbalza sui mercati internazionali del distacco sempre più profondo tra i partner europei, preoccupati di un contagio che Mersch cita esplicitamente.
Si potrebbe andare ancora più indietro per raccontare quella faglia che si andava allargando tra l’Italia e il resto d’Europa, ma quel che è certo è che dimenticare quel crescente deficit di credibilità che nel corso dei due anni successivi è stato in buona parte recuperato - sebbene con un prezzo molto alto in termini di politiche di bilancio restrittive - significa far torto ai fatti.