Michele Brambilla, La Stampa 11/2/2014, 11 febbraio 2014
“CLIMA PESANTE IN TICINO C’È GENTE CHE FA PAURA”
Parto per la Svizzera con uno dei sessantamila frontalieri italiani, ossia con uno dei «topi», come li hanno gentilmente ribattezzati l’Udc e la Lega ticinese. L’appuntamento è alle 5,40 a Carugo, provincia di Como, dove abita il nostro uomo, che si chiama Roberto Bergomi, ha 31 anni, ex giardiniere, oggi viticoltore.
Partiamo da casa sua che è buio pesto.
Più che un orario da frontaliere, è un orario da contrabbandiere. Da due anni Bergomi fa 112 chilometri al giorno per guadagnarsi il pane in un’azienda vinicola di Lugano: fanno merlot e cabernet sauvignon. «D’estate», mi racconta, «comincio alle 6,30, quindi parto un po’ prima». Oggi è un giorno speciale: il primo dopo che gli svizzeri, con un referendum, ci hanno intimato il loro raus, sciò, foera di ball come diceva Bossi ad altri immigrati più a Sud di noi.
Mi spiega perché lo fa: «Oggi è difficile trovare un posto, anche qui al Nord. E poi a Lugano guadagno il doppio di quello che guadagnavo qui da giardiniere». Paga tutto in Svizzera: tasse, pensione, assicurazione infortuni e Tfr; poi da là mandano qui in Italia, al comune di residenza, una parte delle trattenute. «Mi pagano in franchi e ho dovuto aprire un conto in Svizzera: voglio dire, non è che là di soldi non ne restino». Eppure gli italiani non sembrano graditi. «I miei titolari sono persone splendide, ci sentiamo in famiglia». Ma in Ticino il clima è brutto: «Non capisco l’accanimento. I leghisti ticinesi fanno paura, altro che quelli italiani. Io vorrei dire loro: primo, siamo uomini come voi; secondo, se sono qua è perché un’azienda del vostro Paese mi ha chiamato».
Siccome tutti - governo, imprenditori e sindacati - erano contrari a questo referendum, viene il sospetto che sia solo xenofobia. Comincia così il nostro viaggio verso il Canton Ticino, dove sette abitanti su dieci non vorrebbero farci entrare: è la prima volta che due che si chiamano Bergomi e Brambilla si sentono meridionali. Si riscopre così l’amor patrio: noi abbiamo Dante Michelangelo Leonardo la Ferrari il mare, e voi? E la moda, non parliamo della moda: come si vestono gli svizzeri? Ah ah.
Loro però hanno capito una cosa: che una comunità deve darsi delle regole. «Per esempio i miei datori di lavoro», dice Bergomi, «sono gentilissimi con gli italiani. Ma chiedono rispetto. Giustamente. In Svizzera c’è molto più rispetto che da noi: lo vedi già entrando in autostrada, se vai a 40 all’ora dove c’è il limite dei 30 ti ritirano la patente. A me l’hanno ritirata per tre mesi». Ogni tanto però - racconta - la polizia gioca d’astuzia, sembrano quasi italiani: ti tallonano e ti fanno i fari, se fai l’errore di accelerare ti superano e ti fanno accostare, favorisca i documenti.
Alle 6,20 passiamo la frontiera di Brogeda senza alcun controllo: i doganieri hanno ormai una specie di riflesso pavloviano, fanno ininterrottamente «avanti» roteando il braccio. In autostrada c’è già traffico, tutte macchine che vengono dal Comasco: poco più avanti si incrociano quelle che vengono dalla provincia di Varese. I cartelli segnalano gli inflessibili limiti orari: 100 all’ora fino a Mendrisio, poi 80.
A Lugano saluto Bergomi che entra in azienda e gli chiedo se è preoccupato: «Per la gente che trovo qui dentro, no. Però senti del referendum e ti vien da pensare: vieni qua a farti il mazzo e ti trattano a pesci in faccia». Così, capita di sentirsi stranieri nell’unico Paese in cui noi italiani non siamo in difficoltà con la lingua: l’inglese zoppica ma lo svizzero lo sappiamo alla perfezione, c’è solo da tener presente qualche piccola variazione, per esempio postino si dice buralista, il cellulare è un natel, il gabinetto un destro, minimizzare si dice bagatellizzare, chi ha un capogiro ha un balordone e le donne nei giorni critici si dice che «hanno le baracche». A ogni buon conto, per non farmi smascherare nei bar di Lugano, cerco di accentuare la zeta.
Ma sfogliando i tre quotidiani ticinesi non si avverte nulla della caccia all’italiano. Il più diffuso - «Corriere del Ticino» - sottolinea nell’editoriale la stranezza di una scelta fatta «malgrado la crescita economica, il tasso di disoccupazione ridotto e i successi dell’economia elvetica, nonché l’invidiabile benessere di cui godiamo in un contesto internazionale di crisi». Il quotidiano «La Regione Ticino» è critico, scrive che «se un popolo non crede nei propri mezzi e non vede rosee prospettive, spesso cerca un nemico o, nella migliore delle ipotesi, si chiude a riccio». Il più contento del risultato sembra essere il cattolico «Giornale del Popolo», che nel fondo del direttore Claudio Mésoniat («Cara Berna, la pentola è scoppiata») rivendica con orgoglio il ruolo decisivo del Canton Ticino, dove oltre il 68 per cento ha votato «sì»: «Di storico c’è anche un fatto numerico che mette di per sé il nostro Cantone al centro della politica federale». Niente di che. Ma si sa che i giornali non sono la pancia di un Paese.
Alle quattro del pomeriggio Roberto Bergomi esce dal lavoro, gli chiedo se in ditta hanno parlato del referendum: «Solo con il mio capo, un varesotto: lui non è preoccupato, dice che tanto ci arrangiamo sempre». Ripartiamo, la nostra Italia si avvicina, noto che i limiti di velocità sono più alti rispetto al senso di marcia in entrata: 100 dove nella carreggiata opposta sono 80; 120 nel tratto finale, dove di là sono 100. Sembra che i cartelli vogliano dire: andatevene in fretta fuori dai piedi. Ma è sicuramente solo un’impressione.