Emanuele Macaluso, l’Unità 11/2/2014, 11 febbraio 2014
«TUTTI»: COSÌ L’UNITÀ DIEDE VOCE AL PAESE
IL DIRETTORE DE L’UNITÀ MI HA CHIESTO DI RICORDARE CON QUESTO SCRITTO UN’EDIZIONE DEGLI ANNI IN CUI HO GUIDATO QUESTO GIORNALE, ancora «giornale del Pci», e che mi coinvolse in modo particolare. Anche emotivamente. In effetti, ricorderò due momenti. Il primo si riferisce alla mattina del 30 aprile del 1982. Ero nel mio ufficio di via dei Taurini e si preparava il numero del Primo Maggio (diffondevamo, a quel tempo, circa un milione di copie). Il redattore capo, Carlo Ricchini, irruppe nella mia stanza con il volto sconvolto e disse: «Hanno ucciso Pio La Torre».
Con Pio avevo attraversato un lungo tratto della mia vita.
Alla Camera del Lavoro di Palermo, alla segreteria regionale della Cgil e, successivamente, alla segreteria del Pci. Lui mi succedette nella responsabilità di questi tre incarichi. Nel 1949 La Torre lavorava nel Pci e partecipammo insieme alle occupazioni delle terre incolte nel Corleonese: io a Corleone, lui a Bisacquino. Come è noto. La Torre fu arrestato perché un commissario di polizia disse che era stato da lui colpito con un bastone. Era falso. Io venni fermato e poi denunciato a piede libero insieme a tanti dirigenti sindacali e del Pci. Il processo fu vergognoso, tutti fummo condannati a sedici mesi ma Pio scontò il carcere per via di quella falsa accusa dell’aggressione al poliziotto.
La Torre nel 1982 tornò da Roma in Sicilia come segretario regionale del Pci. Erano gli anni dello stragismo mafioso. Alcuni giorni prima dell’agguato. Pio trascorse a casa mia, a Roma, le feste pasquali. Ai magistrati raccontai, durante l’inchiesta sul delitto, che proprio in quell’occasione Pio mi confessò: «Ora tocca a noi». Questa affermazione era il risultato di una lucida analisi: era convinto che una mente politica guidava la mano dei killer mafiosi che avevano già colpito ferocemente in Sicilia. L’altro fronte in cui Pio era impegnato, fu la lotta contro l’insediamento della base missilistica di Comiso. Con l’irruenza che gli era tipica mi chiese di dedicare il giornale del Primo Maggio alla pace. Proprio il mattino del 30 aprile. Renato Guttuso mi aveva fatto pervenire un disegno raffigurante Picasso mentre ritraeva la colomba della pace. Ecco, dunque, che il giornale del Primo Maggio 1982 finì per diventare un’edizione che parlava di pace ma che dava la tragica notizia dell’assassinio di La Torre. E io scrissi un editoriale pieno di amarezza e di rabbia.
Durante la mia direzione, ci sono stati, poi, altri giorni di forti emozioni. Giorni di lavoro al giornale trascorsi in un turbinio di sentimenti legati al secondo momento che voglio qui ricordare. Nella tarda serata del 7 giugno del 1984, Ugo Baduel, l’inviato speciale de l’Unità incaricato di seguire il segretario del Pci, mi telefonò da Padova quando ero già a casa. Mi comunicò che Berlinguer era in condizioni disperate, aveva avuto un malore durante il comizio della campagna elettorale per le europee. Mi aggiunse che Enrico, testardamente, aveva voluto egualmente concludere la manifestazione. Tutti ricordiamo sempre quel filmato di Berlinguer dolente che prova a procedere nel comizio. Il redattore capo notturno, quella sera, era Sergio Sergi ed era stato egualmente informato da Baduel su quanto stava accadendo a Padova. A quell’ora il giornale era «chiuso» e le prime edizioni erano già in stampa.
Mi precipitai in via dei Taurini, a San Lorenzo, e vi trovai Ricchini, il condirettore Romano Ledda, Renzo Foa, Giancarlo Bosetti, il capo dei grafici Enrico Pasquini e tanti altri redattori. Il bollettino medico da Padova non si prestava ad equivoci: Berlinguer era stato colpito da un ictus, era stato trasferito in sala operatoria ma con poche speranze. Cosa fare? Dopo una breve riunione decidemmo di preparare una edizione straordinaria che andasse nelle edicole nella tarda mattinata dell’8 giugno, almeno a Roma, Milano e nelle altre zone del Paese più rapidamente raggiungibili. Il problema era come dare la notizia ai militanti ma anche a tutti gli italiani. Si decise di dire come stavano esattamente le cose, senza omissioni. Infatti il titolo fu secco e drammatico: «Berlinguer gravissimo». E l’Unità fu l’unico giornale che poté informare l’Italia su quanto stava accadendo al leader dei comunisti; l’unico quotidiano che da quel momento si caratterizzò per un modo anche inedito di informare su un evento dai forti risvolti politici e umani.
I giorni che seguirono cercammo di fare un giornale in sintonia con i sentimenti che il malore di Berlinguer suscitò, e non solo nel popolo comunista. I grandi titoli delle prime pagine testimoniano questo nostro impegno. Il 9 giugno: «L’Italia con il fiato sospeso»; il 10 «Berlinguer condizioni disperate»; l’11 «Ti vogliamo bene Enrico»; il 12 «È morto»; il 13 «Addio»; il giorno dei funerali «Tutti». In quei giorni su l’Unità scrissero tante personalità ma voglio ricordare un editoriale di Natalia Ginzburg. La andai a trovare alla Camera e le chiesi di scrivere un articolo per il giornale dell’«Enrico ti vogliamo bene». Ci mandò un pezzo bellissimo che Francesco Piccolo ricorda nel suo recente libro, non a caso intitolato «Tutti», stampato in rosso.
Quel «Tutti» aveva un significato voluto. I funerali di Berlinguer furono un altissimo momento di unità nazionale. Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, accompagnò il feretro in aereo da Padova a Roma. Alle esequie c’erano amici, nemici e avversari. C’era Almirante e c’era Craxi. C’era l’intero stato maggiore della Dc. C’era davvero il popolo. E non soltanto quello di parte comunista o di sinistra. Tutti, appunto.
L’Unità di quei giorni, con quella impronta e con quella titolazione emotiva che gli demmo e che rompeva schemi giornalistici tradizionali, dello stesso giornale del Pci contribuì a dare alla personalità politica di Berlinguer una dimensione più che carismatica. Tuttavia, questa rappresentazione esprimeva sentimenti molto reali e che la partecipazione di massa e la presenza di personalità le più diverse e lontane testimoniarono in maniera molto marcata.
Alcuni hanno osservato che l’Unità di quei giorni contribuì a fare di Berlinguer un personaggio quasi extrapolitico. Come se quella del commiato dovesse essere l’occasione per mettere in discussione le sue scelte politiche. Ma io non nego il fatto che l’atteggiamento della direzione de l’Unità fosse condizionato anche dai rapporti personali e di affetto tra me ed Enrico. Per quattro anni consecutivi, dal 1962 al 1966, lavorai con Berlinguer a Botteghe Oscure. Giorno dopo giorno. Il primo anno fui incaricato di aiutare Enrico, responsabile dell’Organizzazione, per la preparazione del X Congresso del Pci. Successivamente, lo sostituii nella Organizzazione mentre Berlinguer diventò responsabile dell’Ufficio di Segreteria del quale facevo parte, insieme ad Alessandro Natta, Fernando Di Giulio e Franco Calamandrei. E Berlinguer, Natta ed io eravamo anche membri della Segreteria e della Direzione, sotto Togliatti.
Quell’Ufficio si riuniva tutti i giorni e si faceva il punto su tutti i problemi interni del partito. Questa comunità di lavoro ci condusse ad un rapporto personale e ad una fiducia politica reciproca che mai venne meno. Andavamo a mangiare il panino con la mortadella, non griffato, in una piccola salumeria dietro Botteghe Oscure: i giornali e la tv giustamente non se ne occupavano. Una fiducia, quella, così consolidata che non mancò nemmeno quando tra noi si manifestarono dissensi politici. Basta ricordare la svolta impressa da Berlinguer nel 1981, dopo la crisi della «solidarietà nazionale» e la parola d’ordine dell’«alternativa democratica» in polemica con il nuovo accordo Dc-Psi. Ovviamente, non è questa la sede per ricordare questo confronto interno (i verbali, peraltro, sono pubblici). Invece va ricordato e qui si ritrova lo stile che contraddistingueva il dibattito nel Pci che dopo quella polemiche, quando l’Unità nel 1982 attraversò una crisi molto seria, fu lo stesso Berlinguer a chiedermi di andare a dirigere l’Unità e lo fece con un intervento molto argomentato nella direzione del partito.
L’esperienza all’Unità mi confermò non solo la stima che vi era tra noi ma anche la dialettica tra il segretario del partito e il direttore, lasciando a quest’ultimo l’autonomia di giudizio e di valutazione sul dibattito politico-culturale di quel tempo. Quanti pensano che il giornale fosse un «bollettino» del Pci si sbagliano. Non lo è mai stato e, per ciò che mi riguarda, certamente non lo fu in quegli anni.
Ho parlato di una vicenda che è senz’altro un pezzo di quella storia politica italiana che è stata cancellata o demonizzata invece d’essere debitamente oggetto di una seria e rigorosa riflessione critica. È meritoria, oggi, una rievocazione dei 90 anni de l’Unità pur in un mondo politico dove tutto è cambiato: non ci sono più grandi partiti con l’ambizione di avere grandi giornali.