Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 11 Martedì calendario

IL CARCERE «CHIUSO» RIDUCE LA SICUREZZA


Chi va con lo zoppo impara a zoppicare, recita un antico proverbio. E la saggezza popolare trova riscontro in vari studi di economisti - italiani e internazionali - su carcere e recidiva. Gli scienziati sociali lo chiamano «effetto dei pari» ed è la conclusione a cui giungono dopo una serie di studi quantitativi sulla propensione alla recidiva, cioè sulla probabilità di tornare a commettere altri reati e di rientrare in galera. Insomma, il carcere è una scuola criminale: quando entrano, i condannati rafforzano i legami con altri detenuti e allentano quelli con il resto della società; quando escono dal carcere dopo aver scontato la pena, gli ex detenuti diventano reciprocamente un punto di riferimento, influenzandosi a vicenda.
Ben lungi dall’essere affermazioni apodittiche, queste conclusioni sono il risultato, ottenuto empiricamente, di una serie di ricerche che ormai da qualche decennio studiosi di varie parti del mondo portano avanti utilizzando le migliori tecniche di indagine quantitativa. Risultati preziosi in questo delicato passaggio politico-parlamentare sul carcere, perché smentiscono luoghi comuni e allarmismi in nome della sicurezza, che partono da un’idea distorta di "certezza della pena", intesa non come "certezza della qualità della pena" ma come pena da scontare interamente chiusi "dentro", a doppia mandata. E più sono le mandate, più "fuori" ci si sente sicuri.
Al contrario, gli studi economici dimostrano che il carcere "chiuso" produce soltanto altro carcere e che il sovraffollamento (con il suo carico di promiscuità, invivibilità, degrado, insalubrità e morti, che si porta dietro) è un moltiplicatore della recidiva. Dunque, non "conviene" alla sicurezza collettiva.
Piuttosto, è sulle misure alternative alla detenzione (scorrettamente equiparate a "libertà" o a "premi") che bisogna puntare per ridurre la recidiva. In questa direzione si muovono le misure legislative in corso di approvazione (dopo il via libera della Camera, il decreto "svuota carceri, che decade il 21 febbraio, è ora all’esame del Senato). Ma il passo è ancora claudicante perché ancora è troppo radicata la cultura carcero-centrica nonché l’idea, supportata da uno strepitìo politico di fondo, che le misure alternative siano un regalo ai delinquenti e che solo il carcere garantisca la quiete degli onesti.
Il problema non è limitato all’Italia. L’aumento della popolazione carceraria è ormai una costante in molti paesi occidentali. Negli ultimi trent’anni i detenuti sono cresciuti di oltre sei volte negli Stati Uniti e sono raddoppiati in molti paesi europei, fra cui Italia e Francia. Effetto automatico dell’aumento della popolazione carceraria è l’incremento sia delle persone alla prima esperienza di carcere sia dei recidivi. Di fronte a questo fenomeno è quindi lecito chiedersi se il carcere svolga o meno la sua funzione di "riabilitazione" o funga soltanto da parcheggio, dove soggetti ritenuti pericolosi o indesiderabili vengono isolati per un periodo più o meno lungo dal resto della società. In altre parole, la prima domanda è se il carcere riesca a favorire il reinserimento sociale o sia soltanto uno strumento di controllo attraverso l’incapacitation dei detenuti.
A questa domanda se ne aggiungono altre: la detenzione aiuta a ridurre la recidiva? E ancora: il carcere duro, inteso come condizioni inumane e degradanti (costate all’Italia la condanna da parte della Corte di Strasburgo), può indurre gli ex-detenuti a delinquere meno?
Il cittadino italiano, pur di fronte alla gravissima violazione dei diritti umani che si consuma nelle patrie galere, potrebbe pensare che al "costo" sopportato dai detenuti corrisponda un minor "costo" in termini di recidiva, e quindi di sicurezza collettiva, sentendosi così in pace con la propria coscienza. Agli occhi degli scienziati sociali però le cose si presentano in modo un po’ diverso.
Uno dei punti cruciali del dibattito politico-parlamentare è l’uso sistematico di misure alternative alla detenzione, come la detenzione domiciliare e/o con braccialetto elettronico. Nella contrapposizione ideologica, i detrattori gridano allo scandalo del "regalo" a delinquenti pericolosi, i fautori replicano che il carcere è ormai un semplice strumento di vendetta. Come uscire da una simile impasse? Paragonare i tassi di recidiva di chi ha scontato la pena ai domiciliari con quelli di chi è andato in carcere è un’idea naïve. In genere, chi va ai domiciliari è considerato meno pericoloso ed è normale che sia meno recidivo. Un recente articolo di Rafael Di Tella ed Ernesto Schargrodsky, apparso sul Journal of Politica Economy, aiuta a comprendere meglio qual è l’effetto di misure alternative, come la sorveglianza elettronica.
Il caso studiato si riferisce all’Argentina. Per risolvere il problema della selezione (il confronto tra pere e pere e non tra pere e arance), idealmente bisognerebbe assegnare in modo casuale condannati con caratteristiche simili a pene diverse. Gli autori approssimano questo esperimento ideale sfruttando la peculiarità del sistema giudiziario argentino, in cui gli imputati sono assegnati ai magistrati giudicanti in modo casuale: attraverso la storia delle decisioni dei singoli giudici, identificano quelli più o meno "garantisti" (cioè più o meno propensi all’uso di misure alternative) e in tal modo possono identificare una componente casuale nell’assegnazione a pene diverse. I risultati dello studio suggeriscono che i soggetti che beneficiano della misura alternativa recidivano il 48% in meno (praticamente la metà) dei detenuti incarcerati.
Si potrebbe eccepire che l’Argentina è un caso particolare e ci si potrebbe chiedere perché aspettarsi un tale effetto di riduzione della recidiva, ovvero, perché mai la detenzione dovrebbe favorire la recidiva. Una semplice ragione è che l’aumento considerevole della popolazione carceraria negli ultimi decenni ha enormemente deteriorato le condizioni di detenzione. Ma come fare a capire se le condizioni di detenzione sono davvero fonte di maggiore recidiva? La risposta è in una serie di studi americani (Chen e Shapiro, American Law and Economics Review 2007 tra gli altri) e in uno studio italiano.
Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Vertova (American Law and Economics Review 2011) hanno focalizzato la ricerca su un campione di circa 20mila ex detenuti italiani, utilizzando un elemento casuale nel processo di assegnazione del luogo di detenzione. La pena andrebbe scontata nel carcere più vicino alla residenza del condannato, ma questa regola è spesso disattesa per varie ragioni: dal sovraffollamento del carcere "naturale" a motivi di incompatibilità tra quel carcere e il detenuto. Il quale può quindi finire, in modo parzialmente casuale, in carceri dove le condizioni di detenzione sono più o meno buone, a prescindere dalla propria pericolosità. Questo processo rende possibile, con alcuni accorgimenti statistici, depurare l’analisi da fattori di confusione e consente di comprendere meglio quale sia l’effetto delle condizioni di detenzione sulla recidiva.
In particolare, gli autori hanno analizzato l’impatto del numero di morti in carcere avvenute durante la detenzione, depurando l’effetto delle morti da altre caratteristiche inosservate dell’ambiente carcerario, che potrebbero rendere le correlazioni spurie: l’analisi mostra che maggior sovraffollamento e morti in carcere sono fattori associati a una maggiore propensione a recidivare.
Si potrebbe obiettare che, se il problema della recidiva sono sovraffollamento e condizioni che producono morti, basta costruire nuovi penitenziari o ristrutturare quelli dismessi. Ma, a parte i costi, quest’operazione risolverebbe davvero i problemi? Forse renderebbe le condizioni detentive meno insopportabili, ma non intaccherebbe uno dei fattori alla radice dell’aumento della recidiva a causa del carcere. Questo fattore è quello che gli scienziati sociali chiamano «effetto dei pari». Che equivale, appunto, al proverbio «stando con lo zoppo si impara a zoppicare»: "dentro" si rafforzano i legami con altri detenuti e si allentano quelli con il mondo esterno; una volta "fuori", gli ex-detenuti diventano reciprocamente un punto di riferimento, influenzandosi a vicenda.
L’evidenza empirica di queste affermazioni si trova in molti altri studi. Francesco Drago e Roberto Galbiati (American Economic Journal: Applied Economics, 2012), utilizzando un campione di circa 20mila detenuti italiani, mostrano come la propensione individuale a tornare a delinquere dipenda dal comportamento degli altri detenuti con cui si è condiviso il carcere. Lo stesso risultato lo ritrovano Patrick Bayer e altri (Quarterly Journal of Economics) utilizzando un campione di detenuti americani, e Aurelie Ouss (Harvard University, 2013) con riferimento a detenuti francesi. Insomma, il carcere è una scuola criminale. Del resto, più di un secolo fa (era il 18 marzo 1904) Filippo Turati denunciava: «Noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda di colpevoli, ma le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori».


Roberto Galbiati* e Donatella Stasio

* Centre National de la recherche scientifique
e Sciences Po Paris