Piero Colaprico, la Repubblica 11/2/2014, 11 febbraio 2014
IL FRONTALIERE – [SVIZZERA NELLA FABBRICA DEGLI ITALIANI IN PRESTITO]
Sono le auto e la fretta degli italiani, che vanno e vengono tra i saliscendi del ricco paese di Mendrisio, a raccontare che cos’era e cos’è il loro lavoro. E sono anche i soldi che si mettono in tasca: «Mi spiace, ma la direzione non ci autorizza ad esprimere la nostra opinione sul referendum», rispondono in tanti, quando si cerca di capire meglio le possibili tensioni, e forse le paure, dopo il voto del referendum di domenica, che “chiude” agli immigrati la possibilità di libera circolazione. Persino alla pompa di benzina, dove si fa il pieno prima di tornare a casa, perché costa meno che in Lombardia, la bionda alla cassa ripete il mantra del «Mi spiace, non sono autorizzata».
Approfittando di un cancello aperto, entriamo nel grande garage sotterraneo della Consitex, gruppo Zegna. Ci sono decine e decine di auto, non da ricco, ordinate in file. Occhio alle targhe. Moltissime sono di Como, Varese. Le auto svizzere? Poche, una goccia nel mare di lamiere: sono le più vicine all’ingresso dell’azienda. Non è scritto da nessuna parte che gli svizzeri godano di maggiori comodità, ma nei fatti va in questo modo, e non solo qui, fabbrica per fabbrica, cantiere per cantiere. Dappertutto funziona così, a due velocità, in questo Canton Ticino, dove ogni giorno entrano ed escono passando dalle frontiere 60mila persone, i “frontalieri”: un mondo di lavoratori italiani in prestito alla Svizzera, ma non amalgamati alla Svizzera. Lo mostra alla perfezione l’ora del cambio turno. Sono le 14 e basta mettersi davanti alla Adaxis: la strada è stretta, ecco sette auto che escono in rapida successione dal parking e altre cinque che aspettano per entrare. Tutte targhe italiane: chi ha finito fugge verso casa, e chi arriva conquista il suo posto nell’ampio spiazzo. Fine turno anche alla fabbrica dell’oro, protetta da muraglioni e filo spinato: le giovani donne italiane in fila sul marciapiede accelerano il passo, comincia a nevicare. E là, alla fabbrica degli orologi, o forse a quella dei medicinali — sono stabili modernamente somiglianti — si scorgono dalla strada altre ragazze, una accanto all’altra, chine sulle postazioni di lavoro, a ripetere gli stessi rapidi movimenti. Gli oltranzisti, anni fa, hanno descritto gli italiani in un manifesto come «ratti famelici ». A vederli dalla strada, così da vicino, e lo si scrive con rispetto, al massimo possono ricordare i topolini: timorosi di un gatto che forse tanto immaginario non è.
Più d’uno, raccontandoci come stanno davvero le cose, chiederà l’anonimato. Lo fa anche il capo di un’intera famiglia di immigrati quotidiani, come se fossimo in un territorio, se non pericoloso, decisamente agguerrito: «Gli Svizzeri — dice, facendo sentire la “S” maiuscola — possono licenziarti da un giorno all’altro, senza motivo, e non si capisce mai cosa può dargli fastidio. Sono qui da 25 anni, ma preferisco non essere citato». Il suo suggerimento è di entrare alla “Fox town”, un centro commerciale, che con i suoi colori e le sue luci rompe le architetture da geometra infelice del resto del paese. Tre chilometri di vetrine su tre piani, marchi prestigiosi come Prada, Valentino, Missoni, Gucci, boutique, negozi per la casa, sette tra bar e ristoranti. Finalmente, qui l’esercito dei topolini è più conscio della sua forza: «Noi frontalieri qui saremo l’80%, senza di noi qui si chiudono tutte le saracinesche, e anzi dovunque a Mendrisio si chiude senza di noi, non hai visto quante auto italiane? ». E voi dove parcheggiate, nel sotterraneo? «No, è per i clienti. Noi dobbiamo parcheggiare oltre il ponte…».
Se Mendrisio per gli svizzeri è un bel paese, per gli italiani è una gigantesca fabbrica. E se queste ragazze e ragazzi, questi papà, questi lavoratori tacciono rispettando ogni imposizione, è soprattutto per una ragione concreta, anche se non evidente. Farsi dire quanto guadagnano è un’impresa, ma alla fine, dai e dai, uno accetta di dirlo: «Ci sono tante fasce salariali, da chi ha il tempo pieno al part-time, ma lo stipendio medio lordo qui è sui 2.900 euro al mese. Ognuno di noi, quindi, se ne mette in tasca ben più di 2mila. Per fare il commesso a Milano è vero che si prendono 700 euro, spesso in nero? Sono tre volte tanto. Non dirlo in giro, se no arrivano tutti qui».
Si può guadagnare il triplo, va bene: ma se il referendum in sostanza dice no allo straniero, questo “surplus” non potrebbe finire nel modo peggiore? «Ci hanno detto che se problemi ci saranno, non saranno per noi che siamo già qui». È questa la risposta di una giovane donna, elegante commessa di un marchio prestigioso, con un sorriso educato: l’implicita conferma che a qualunque latitudine chi «è già qui» si autoconvince, e s’illude, che i guai capitino sempre agli altri, a chi «verrà dopo».
Questa chiave d’accesso monetaria (valutaria) verrà confermata al cronista dovunque. «Faccio il part-time e guadagno come se in Italia lavorassi a tempo pieno», dice la concierge di un hotel. E un tecnico super-specializzato aggiunge: «Prendo, più o meno, il doppio di quanto prende in Italia uno con le mie mansioni. Prendo bene, via». Il meccanismo, però, s’è inceppato? «La verità è che questi stipendi, così allettanti per gli italiani, erano bassi per gli svizzeri. Qui un disoccupato cronico riceve 2mila euro al mese. Sempre qui uno svizzero doc che perde il lavoro, e certamente non accetta di fare tutti i lavori, specie quelli manuali, viene mantenuto dalla collettività per due anni — ci raccontano — con uno stipendio pari all’80% dell’ultima busta paga. Insomma, non è che tutti gli svizzeri si sbattano…». Questo fortunato relax alla ticinese viene ignorato dai partiti più di destra, dai populisti, ma il fatto è che «adesso girano ragazzi italiani, anche laureati, non più del Nord, ma di ogni angolo d’Italia. Vengono a Lugano con un pacco di curriculum alto così - spiega un imprenditore locale - e girano le agenzie interinali, o i bar e ristoranti, chiedono, s’informano, restano. Magari qui in un call center guadagni anche 20 euro all’ora».
Nella grande complessità di valori in gioco questo referendum, passato con il 50,3% dei consensi, è dunque, come dicono molte associazioni di frontalieri, un triste e crudele «ritorno nel passato»? Oppure nasconde altro? Lo si saprà forse a maggio. Perché un altro referendum è alle porte. L’ha proposto, tra gli altri, il sindacato Unia. Premessa: in Svizzera i contratti collettivi non sono affatto la norma, qui vale spesso il principio “arrangez- vous”, il “fate voi”, azienda per azienda, e non c’è un minimo salario. Sergio Aureli, 38 anni, uno dei responsabili e futuro candidato pd alle europee, la spiega così: «Abbiamo raccolto le firme, è tutto ok, e il 18 maggio, domenica, chiederemo agli svizzeri se accettano o no di imporre per tutti i lavoratori uno stipendio minimo garantito. L’abbiamo pensato di 4mila franchi, 3.200 euro lordi al mese. Questo per noi è l’unico modo per favorire la concorrenza leale, quella che si basa sulla qualità della manodopera, o no?».
Il fiorire di proposte popolari — dai minareti al tetto dello stipendio dei manager — colpisce e sembra sottolineare uno stile, o un’esigenza. Come se, forti delle banche e dei referendum, gli svizzeri, “nel loro piccolo”, volessero mostrare i muscoli. E dettare alla grande e malferma Europa qualche tema cruciale, anche se difficile da digerire.