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 2014  febbraio 11 Martedì calendario

LA PASSIONE DI PASOLINI SECONDO SGORLON


Tre grandi scrittori e un fantasma. Carlo Sgorlon, in veste di autore romanzesco. Pier Paolo Pasolini, in quella di soggetto letterario. Biagio Marin, come suggeritore. E il fantasma? Si chiama Oreste, ed è protagonista del romanzo inedito Nel segno del fuoco (di cui accanto pubblichiamo il finale).
Ma procediamo con ordine. Il 2 novembre del 1975, come tanti ricordano, il corpo di Pier Paolo Pasolini, il volto orribilmente sfigurato, viene ritrovato vicino all’idroscalo di Ostia. Che l’assassino sia uno dei ragazzi di vita tante volte magistralmente descritti dallo scrittore, e che le ragioni del delitto possano essere abbiette, a lungo non viene accettato da una parte della sinistra culturale italiana, che farnetica di «complotto fascista». Gli spiriti indipendenti invece sono turbati da tutt’altro: il fatto cioè che il dramma umano di un grande e poliedrico artista possa essere prima strumentalizzato, quindi rimosso.
Tra questi ultimi ci sono il friulano Carlo Sgorlon e il poeta di Grado, Biagio Marin. Da sempre entrambi «sentono» Pasolini come uno dei loro, pur non frequentandolo abitualmente. Vicinanza etnica e geografica, certo — Pasolini è anch’egli di quelle parti — e inoltre coscienza del fatto che il sulfureo P.P.P., pur nella fantasmagoria delle sue incarnazioni — poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, giornalista eccetera — attinge sempre gran parte delle sue linfe vitali dal ricordo della piccola patria comune.
Dunque, in quel fatale anno 1975, Biagio Marin scrive a Carlo Sgorlon una lettera accorata. È appena tornato dal funerale di Pasolini, e si rammarica di non avervi incontrato l’amico Sgorlon (ignora che lo scrittore allora non era in possesso né di macchina né di patente, e la trasferta in quell’occasione gli era risultata impossibile). La lettera contiene una preghiera che l’autore de Il trono di legno non può ignorare: scriva subito, a caldo, un libro dove si racconti la verità su P.P.P. Non da un punto di vista critico né biografico né politico, bensì in modo da «accoglierlo tutto e risolverlo nella sua tragedia».
E Carlo Sgorlon, come obbedendo a un buzzatiano, austroungarico comando, si mette a scrivere. Lo fa nel suo solito modo: affidandosi di getto alla sua mitica «penna d’oro», senza quasi correggersi, salvo poi coinvolgere la moglie e consigliera, Edda, nella stesura dattiloscritta. E tuttavia, dentro alla camera oscura della sua ispirazione, avviene qualcosa di imprevisto. Dalla penna non fluisce l’inconfondibile stile sgorloniano, favolistico e quasi ipnotico, per il quale raccoglie ovunque consensi e lettori, ma un saltellante e nervoso rincorrere emozioni e avvenimenti, quasi che per miracolo letterario l’autore fosse penetrato nella psiche del suo personaggio. Sgorlon si trasforma in Pasolini, arriva a condividere i suoi febbrili pensieri, in una girandola di immagini e metafore che paiono espressionistiche e quasi barocche. Inoltre — a sottolineare la libertà d’ispirazione e una rispettosa distanza dall’oggetto — Carlo Sgorlon trasforma l’eros torbido e tormentato di Pasolini in una pulsione estrema ma ortodossa, non più omosessuale ma dongiovannesca; senza comunque arretrare dal terreno della trasgressione e dello scandalo.
Il risultato, sottoposto al responsabile della narrativa Mondadori Alcide Paolini, provoca stupore unito a innegabile perplessità. Il tema scotta, ed è svolto da uno scrittore famoso; ma questi spiazza i suoi stessi lettori creando un personaggio che è Pasolini, ma allo stesso tempo non è lui. E lo fa in uno stile diverso, impossibile da attribuire ad alcuno dei due. Dunque, secondo Paolini, prima di pubblicarlo è necessaria una «rastrematura» (che avvia subito lui stesso). Ma i dubbi e le perplessità evidentemente aleggiano fra le due parti, la Milano mondadoriana e la casa udinese di Sgorlon. Intanto l’Italia sta vivendo la «questione Pasolini» come un dramma nazionale, e alla fine accade l’imprevedibile: Carlo Sgorlon accantona senza spiegazioni il romanzo. Già la sua mente «instancabile come una stufa sempre accesa» sta consumando altra legna; ci pensa la moglie Edda però a salvare il dattiloscritto dal cestino, ed è grazie a lei che, oggi, possiamo parlarne.
Tanti anni dopo, esso getta una luce speciale sulla personalità dello stesso Sgorlon. Tra lui e Pier Paolo c’era stato solo un fuggevole contatto a Cervignano; ma si era sviluppato comunque un curioso «corpo a corpo» letterario a distanza. Del compatriota, Sgorlon dava un giudizio a due facce: tra la passione e l’ideologia di Pasolini prediligeva nettamente la prima e diffidava della seconda. Considerava una sua «ancora di salvezza» il «rimpianto per la civiltà contadina», mentre metteva in guardia dalla «sua lucida follia» e dal «cupio dissolvi ». Si lasciava affascinare dal «dilettante di sensazioni» quasi dannunziano, ma criticava la sua tendenza «al narcisismo», o addirittura alla «megalomania pontificale». Pasolini, di rimando, stroncò Il trono di legno pur dando a tratti l’impressione di lodarlo, ma in definitiva accusandone apertamente l’autore di aver rimodulato «in falsetto» lo stile narrativo di Elsa Morante. Al che — e questo la dice lunga sulla personalità di Sgorlon — la vittima rispose con parole misurate ma ferme, senza mai scendere nella lite aperta. Tanto che nel 1975, all’invito di Biagio Marin, rispose gettandosi a capofitto Nel segno del fuoco .
Leggendolo oggi, si è colti da una sensazione dapprima di inquietudine, poi addirittura di perturbamento. Ci sono pagine — nel capitolo in cui Oreste-Pier Paolo scopre il sesso attraverso la visione sconvolgente della madre nuda, immersa in soffitta in un bagno di sole — di una forza abbagliante. Altre — come quelle finali che qui pubblichiamo, in cui Oreste trova una morte assurda alla periferia di Roma sulle tracce di Pasolini — permettono di cogliere quello strano processo di immedesimazione tra Sgorlon e P.P.P., così pronunciato da imporre uno stile diverso a colui che scrive.
E ora? Edda Sgorlon è alla ricerca, tramite la Mondadori, di un modo per evitare che vada dispersa l’opera del marito: sia quella edita, che l’altra mai pubblicata, narrativa e saggistica. Qualunque ne sia l’esito, Il segno del fuoco è destinato a rimanere una testimonianza, unica probabilmente, di ciò che ha significato essere scrittori, nella carne e nel sangue, al crepuscolo del Novecento.