Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

IL MEDIANO CON DUE CUORI CHE SPEGNEVA I CAMPIONI “MA A SIVORI FECI UN TUNNEL”


[Giuseppe Furino]

Quando Giuseppe Furino giocava, molti scrissero che la classe operaia era andata in paradiso: 8 scudetti, record diviso con Virginio Rosetta e Giovanni Ferrari, ma Furino con una sola maglia, quella della Juve. Capitano e bandiera, insomma.
«Capitano sì, bandiera no. Non mi è mai piaciuto l’accostamento con le bandiere, che stanno alte in cima a un pennone. Io stavo rasoterra, a lottare».
Questa puntualizzazione è la prima di una serie di sorprese. Chi l’ha visto giocare, un impasto caldissimo di corsa e agonismo, incollato come un’ombra minacciosa ai numeri 10, pensava a una vecchia definizione di Nereo Rocco per i numeri 4: distudaferai, che tradotto dal triestino significa spegnilampioni. Furiafurinfuretto l’aveva ribattezzato Vladimiro Caminiti, palermitano come lui, su Tuttosport. Mi sono portato un ritaglio: «Nella sua storia leggendaria la Juve ha avuto eccelsi gregari. Ma nessuno all’altezza di questo nano portentoso, incontrista e cursore, immenso agonista, indomabile nella fatica, i piedi come uncini dolorosi in certe circostanze». Che gliene pare?
«Un poeta, Vladimiro. Ma io non sono d’accordo con gli uncini, perché mi sono sempre sentito un giocatore tecnico, veloce e anche tattico, non solo un cursore assiduo, come si diceva allora. Il calcio è anche corsa, ieri come oggi. Ma rispetto a quelli di oggi noi camminavamo e avevamo un ritmo costante più basso. Era un altro calcio. Anche noi, che pure eravamo la Juve, avevamo due maglie per tutta la stagione, una per il caldo e una per il freddo. E quando si strappavano venivano rattoppate. Più importante il fatto che sui campi ci fosse un solo pallone. Bastava buttarlo in tribuna per guadagnare un mezzo minuto in cui tirare il fiato. Oppure toccavamo indietro al portiere, che poteva usare le mani e faceva passare un altro mezzo minuto abbondante. Oggi questo non è più possibile, i giocatori corrono di più, forse troppo. Sono impressionato dall’alto numero di incidenti muscolari, spesso senza contatto con l’avversario. Il mio primo stiramento l’ho avuto a 30 anni. E giocavamo su campi più brutti, pelati in mezzo al campo, erba solo sulle fasce».
Torniamo al concetto di giocatore tecnico.
«Da ragazzo il mio idolo era Omar Sivori, giocavo coi calzettoni abbassati e anche più tardi non ho mai messo i parastinchi. Quand’ero nelle giovanili della Juve a Sivori ho fatto un tunnel e ci è rimasto male: ragazzino, come ti permetti? Non l’ho fatto apposta, gli ho detto. Invece sì, era da mezzora che provava lui a farmi un tunnel, se l’era cercata. Da ragazzo, tra giovanili Juve, Savona e Palermo credo di aver indossato tutte le maglie, tranne l’1 e la 9. Sì, ho avuto la 10, tiravo rigori e punizioni. Ma un giorno ho visto Luis Del Sol e ho deciso che il mio vero ruolo era quello di mediano. E al mediano si chiedeva di marcare, essenzialmente. E il mediano che portava via la palla al 10, che molto raramente lo rincorreva, creava la famosa superiorità numerica».
Più difficile marcare Rivera o Mazzola?
«Due bei clienti. Mazzola era più imprevedibile quando giocava di punta, Rivera sempre. Ma chi mi ha messo più in difficoltà è stato Menti, un pennellone del Vicenza. A volte ho fatto anche lo stopper. Un pomeriggio a Firenze Salvadore mi dice: quello lì lo marchi tu perché a me fa sempre gol. Quello lì era Amarildo. Ma anche contro Van Himst, un armadio, me l’ero cavata bene. Ci sono dettagli che forse a voi giornalisti sfuggivano, ma ogni volta che avanzava Scirea o si buttava Tardelli ero io a coprire. Più che il guardiano di un avversario, mi sentivo il custode di un territorio. Per questo la canzone che Ligabue ha scritto pensando a Oriali la sento anche un po’ mia, perché una vita da mediano l’ho vissuta».
A noi giornalisti non sfuggiva che Furino, etichettato come brutto, sporco e cattivo, bello non era. Basso di statura, gambe arcuate da fantino, capigliatura non abbondantissima, però quanto a gioco sporco e cattivo si vedeva di peggio. Era sempre appiccicato come un tafano o un polpo, toglieva aria, spazio e fantasia. Boniperti un giorno disse che Furino aveva due cuori. Boniperti capiva di pallone ed era arduo contraddirlo. Per lui Furino era il capitano ideale, un simbolo di juventinità.
A proposito, Beppe, cos’è la juventinità?
«È senso di appartenenza, condivisione dei valori. È saper accettare le vittorie e anche le sconfitte, questo vale per i giocatori e anche per i tifosi. Troppo comodo tifare solo quando si vince. Le racconto una cosa: torniamo da Bilbao sull’aereo dell’Avvocato con la coppa Uefa, primo trofeo europeo nella storia della Juve. Scendo dalla scaletta a Caselle con la coppa in mano e sulla pista ci sono i tifosi, e in prima fila osannante uno che conosco di vista. Uno che l’anno prima, quando il Toro ci sorpassò e vinse lo scudetto, ci aveva gridato gli insulti peggiori. Lui e altri, alcuni piuttosto balordi tant’è che per un po’ fummo costretti ad allenarci a Villar Perosa. Con gli occhi li avevo schedati tutti. E quindi a questo dico secco: o vai via o ti spacco la coppa in testa. Non l’avrei mai fatto, ma lui ci ha creduto ed è sparito».
Il Toro, annessi e connessi.
«Se c’era casino, io c’ero. Ma anche loro. A Causio cominciavano a stuzzicarlo già nel sottopassaggio, lui s’innervosiva e rendeva la metà. Noi facevamo la partita, loro i gol. Loro vincevano molti derby, ma il campionato no, tranne uno. Secondo me a farci perdere dei derby, a parte che il Toro contro di noi giocava la partita della vita, è stato anche Boniperti. Rompeva le palle già dal lunedì. Mi raccomando, ragazzi, domenica c’è il derby. E così martellando fino alla domenica. Arrivavamo allo stadio due ore prima, tesi ma pure stanchi, come ne avessimo già giocati due. Uno come me era Ferrini. In campo come cane e gatto, certo, ma il mio sogno era quello di giocare a centrocampo con Ferrini e Bulgarelli. Per i tifosi avversari ero un po’ una merda, lo so, ma quando prendevo due tram per andare a Piazza d’Armi e sul campo mi spronava il mitico Cesarini, io non pensavo a diventare un calciatore famoso. Pensavo solo a giocare. Intanto, dicevano i miei, prendi un pezzo di carta, e l’ho preso, perito elettronico. Non mi hanno né ostacolato né spronato. Nessuno mi ha mai accompagnato all’allenamento».
Che famiglia era?
«Del sud. Mio padre napoletano, mia madre di Ustica, dove passavamo le vacanze. Nonno Peppino era stato sindaco dell’isola, poi aveva aperto uno di quei negozi dove si vende un po’ di tutto. Uno dei primi ricordi è di mio padre che suona il mandolino sotto il pergolato. Quel mandolino ora ce l’ha mio fratello, ma ho deciso che quest’anno prenderò lezioni, voglio imparare a suonare il mandolino. Torniamo indietro: nasco a Palermo, dopo sei mesi la famiglia si trasferisce ad Avellino, poi a Napoli. Quando mio padre è mandato a Torino ho 15 anni e sono già inguaribilmente juventino».
Quanto manca il clima della partita?
«Arriva il momento in cui ti senti o ti fanno sentire troppo vecchio per il pallone. Mi manca di più il clima dello spogliatoio, le visite di Gipo Farassino, lui sì un tifoso vero, le partite a scopa col dottor La Neve e il massaggiatore Di Maria, gli scherzi, l’allegria. Del calcio ho molti ricordi e un buco nello stinco che m’ha fatto Perico ad Ascoli. Ero amico di tutti i compagni ma, al di fuori, non frequentavo nessuno. Ho aperto questa agenzia di assicurazioni che ancora giocavo, nel ‘79, e continuo ad occuparmene. E nel tempo libero, gioco a golf».
Ecco un’altra sorpresa. Furino che gioca a golf.
«E mi piace. Pensavo che i golfisti fossero degli smidollati, ma sbagliavo».
Difficile dire basta col calcio?
«No. E dire che Totò Juliano si era scomodato venendo a Torino per convincermi ad accettare il Napoli. E Sergio Rossi, presidente del Torino, aveva tastato il terreno offrendomi una maglia granata. Non era il caso»
Perché non ha fatto l’allenatore?
«Errore di presunzione. Non avevo le presenze in azzurro di Zoff, che ha avuto automaticamente il patentino, e non ritenevo decoroso, con la mia carriera, dover sostenere esami supplementari».
Solo tre maglie azzurre.
«E una sola partita completa, a Istanbul nel ‘73, in nove della Juve in azzurro con l’obbligo di vincere per andare al mondiale. Vincemmo e in spogliatoio Valcareggi disse ai giornalisti che con me avevano risolto il problema del mediano per qualche anno. Mazzola era seduto di fianco a me: Beppe, non devi credergli, disse. E infatti non fui più convocato. Ma in Messico c’ero. Poteva andare diversamente con una miglior gestione degli uomini: alcuni furono bolliti, altri non giocarono quasi mai»
E ad Atene con l’Amburgo poteva andare diversamente?
«Sbagliò Trapattoni che non mi mandò in campo. No, scherzo, quando tutta la squadra dà il 10% di quello che può dare e a deludere maggiormente sono i più attesi, Boniek e Platini, non c’è niente da fare».
Andava d’accordo con Platini?
«Per la stampa era facile metterci contro: se lui stentava era colpa mia. Ma non esiste che uno giochi male per colpa di un altro. A Michel serviva tempo per ambientarsi, tutto qui».
A proposito di stampa, Furino non ha mai cercato i giornalisti e quando i giornalisti cercavano lui era come accarezzare un istrice. L’unica figlia di Furino, Ludovica, fa la giornalista a Gioia. È la legge del contrappasso.