Massimo Carlotto, la Repubblica 10/2/2014, 10 febbraio 2014
CUTRÌ, L’EVASIONE SGANGHERATA DI UN BANDITO PICCOLO PICCOLO
FINE pena mai». Un timbro rosso sul fascicolo penitenziario di Domenico Cutrì. Tutta la vicenda inizia con quella condanna all’ergastolo che il piccolo boss non è mai riuscito ad accettare. Se fosse stato condannato a trent’anni quel piano sgangherato di fuga non avrebbe mai preso forma nella sua mente.
SI SAREBBE aggrappato alla speranza di poter uscire un giorno in cui la vita avrebbe potuto avere ancora un senso.
L’ergastolo è invece un buco nero che inghiotte il detenuto e la quotidianità diventa un incubo. Bisogna avere coraggio per scontare il carcere a vita. Soprattutto nelle vergognose galere italiane. E Domenico Cutrì un leone non è mai stato. Se fosse un personaggio di un noir e l’autore decidesse di farlo fuggire in modo rocambolesco, anche con tutta la buona volontà, non riuscirebbe mai a concepire un piano tanto stupido. Prima di tutto eviterebbe di coinvolgere familiari e amici che nel momento dell’assalto si troverebbero in luoghi lontani e circondati da un discreto numero di testimoni. Solo nelle storie western, dove si fugge a cavallo ed è sufficiente tagliare i fili del telegrafo per ottenere un buon vantaggio, i fratelli puntano la pistola alla testa dello sceriffo. Ma al giorno d’oggi se vuoi evadere con queste modalità devi rivolgerti a dei professionisti. Ex militari o paramilitari serbi o croati. Oppure corso-marsigliesi. Ma quelli costano. All’Est i prezzi sono più bassi ma si tratta almeno di 200.000 euro per un nucleo di quattro persone, esperte, addestrate e prive di ogni scrupolo a svuotare il caricatore di un kalashnikov. E poi servono altri quattrini per l’espatrio e il rifugio all’estero. E riserve per reggere il tempo necessario per convincere gli sbirri che non vale la pena perdere altro tempo a darti la caccia.
Colloquio dopo colloquio, lettera dopo lettera, Domenico ha condizionato familiari e amici. Ha inoculato nei loro cuori l’assoluta necessità della liberazione. A tutti i costi. Ha giocato sporco sul senso di colpa. Li ha illusi promettendo un futuro radioso nell’Olimpo della criminalità organizzata. Alla fine, quello che, con ogni evidenza, era un piano destinato al fallimento è sembrato possibile, praticabile. La perdita di contatto con la realtà determinata dalla reclusione ha contagiato anche coloro che dovevano invece cercare di farlo ragionare.
L’evaso non è più una categoria criminale moderna ma un ricordo degli anni Settanta. Gli istituti penitenziari sono stati concepiti per togliere ogni illusione di calarsi dalle finestre annodando insieme le lenzuola dopo aver segato le sbarre. Perfino Cutrì lo aveva capito e gli era sembrato geniale organizzare la sua liberazione a mano armata durante il trasferimento in tribunale. Ma Cutrì non aveva né i mezzi, né le conoscenze giuste. Era solo un piccolo uomo spaventato che ha manipolato le vite degli altri per salvare la propria.
Ma quale boss! È vero che i criminali non sono più quelli di un tempo ma arrivare al vertice significa comunque avere cura della propria organizzazione. Lui ha preferito mandarla al macello. Il fratello abbattuto con un colpo al collo è la prova evidente di una totale assenza di affetto nei confronti della sua famiglia. Ora lo piangerà ma non sarà del tutto sincero perché l’unico vero dolore che prova è per essere tornato dietro le sbarre. Cutrì è sempre stato un uomo incapace di amare. Ha cercato un posto nel mondo attraverso il crimine ma il suo scarso spessore lo ha costretto a bazzicare livelli bassi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Se un editore mi avesse commissionato un romanzo per raccontare questo tipo di storia, a questo punto spingerei il personaggio a pentirsi. In fondo è l’unica possibilità per riuscire a dare un senso a una vicenda così infinitamente sbagliata. Per se stesso non chiederebbe nulla in cambio della collaborazione con la giustizia ma un po’ di pietà per gli sventurati che lo hanno aiutato a fuggire. Dubito che nella realtà Cutrì si comporterà in questo modo. Il pentimento rimane comunque una via intelligente, ma se dovesse scegliere di arrendersi definitivamente allo Stato sono certo che sfrutterebbe per sé i vantaggi. Il problema vero è che dovrebbe avere qualcosa da raccontare: ma l’arresto in quella palazzina senza acqua e senza luce indica che al massimo ha avuto accesso alle chiacchiere di radio buiolo.
Domenico Cutrì è sempre stato solo avventato e pericoloso. Tutta la sua storia criminale lo dimostra. Di certo non ha mai avuto lo spessore di un boss e ora, dopo questo arresto in quel covo da lestofanti di periferia, il suo valore sul mercato criminale è nullo. Da oggi in poi, in galera, nessuno gli porterà rispetto, né gli agenti e tantomeno gli altri detenuti. E la sua paura di finire i suoi giorni in una cella aumenterà.
Conosco ergastolani che da anni con grande dignità scontano la loro pena rispettando ogni regola, cercando di aprire con la società un serio dibattito sull’abolizione del carcere a vita. Sono uomini che hanno sbagliato, che non temono di pagare il prezzo dei loro errori ma chiedono di poter avere la possibilità di dimostrare che meritano di essere reinseriti nel contesto sociale. Loro meritano considerazione e rispetto. Cutrì merita solo di essere dimenticato.
Massimo Carlotto
l’autore è scrittore di libri noir