Adriano Sofri, la Repubblica 10/2/2014, 10 febbraio 2014
EFFETTO VOLTERRA NELLA CITTÀ CHE RESISTE ALL’ITALIA CHE FRANA
VIENE giù una strada e si scopre un mondo. I vigili del fuoco fanno entrare brevemente Carlo Bigazzi nel palazzo evacuato sulla frana a prendere qualche indumento, e mi lasciano affacciare alla finestra, che ora dà sullo strapiombo.
«Quelli sono i soffioni di Larderello, vedi come li piega il libeccio, domani piove; e oltre c’è l’Elba del monte Capanne, e la Capraia e in fondo il dito della Corsica».
Il pavimento è ondulato e ha delle crepe: qualcuna vecchia, qualcuna no.
Anni fa gli abitanti raccolsero firme chiedendo di chiudere il traffico nel vicolo interno, intitolato a Persio Flacco: per proteggere anziani e botteghe, e c’erano crepe, se ne discusse in comune, non se ne fece niente.
Un pompiere guarda giù e borbotta: «Qui rifrana». Fuori, sulla strada Lungo le Mura, a ridosso del tratto transennato che è venuto giù, un uomo sta gridando al telefono, per sovrastare il vento: «Sono a vedere di fuori il tramonto che vedevo da casa». Ai volterrani piace sentirsi come un’isola: invece che nel mare, un’isola nel vento. «È stato come il crollo di una banchina del porto», dice Carlo. La frana ha portato via per 40 metri le mura medievali, la strada e il ripiano sottostante. Gli edifici hanno fondamenta brevi, e poggiano su uno strato di riporto, sopra la roccia, la panchina. È impressionante come il crollo sia separato dal centro, da Duomo e Battistero, e dalla piazza dei Priori, appena da un isolato. A Volterra la Piazza per antonomasia («la più fredda d’Europa…») è quella dei Priori («il palazzo pubblico più antico di Toscana…»), le altre si chiamano San Giovanni, San Michele, senza bisogno di dirle piazze. Tra gli sfollati c’è una sorprendente comunità di artisti e artigiani, che fa capo al Caffé dei Fornelli, a pochi metri dalla voragine.
Mostre, letture, colazioni da osteria — «Mi raccomando, non chiamarlo bar!». Carlo, il titolare, scherza: «Dicono che voglio fare il business con la frana…». Ennio Furiesi detto Pizzi, 77 anni, decano di questa Montmartre, è un pittore geniale di spartiti di pioggia e schegge di soldati, maestro di generazioni di alabastrai: l’ultimo a venir via dal Padiglione Chiarugi, che a manicomio e riformatorio dismessi era diventato un centro di cultura. Sloggiato dal Chiarugi pericolante, evacuato ora dallo studio sulle mura, Furiesi si è scritto un epitaffio (da vivissimo): «Nello specchio ho visto un vecchio, / crollato nel fisico e nel morale, / come l’antico muro medioevale». Hanno protestato in tanti che il muro medievale franato stava per risalire la china e ritornare in sesto da solo. Alessandro Marzetti, già suo allievo, ora insegna e lavora tutte le pietre, ha anche lui il laboratorio sullo sprofondo: c’è di tutto, nodi escheriani, senza capo né coda, dunque perfetti, ricavati svuotando l’alabastro, più dolce del marmo e molto più fragile. Mi vergogno delle mie tasche piene di uova di alabastro da turisti, a 3 euro l’uno; lui le riscatta facendoci delle microsculture. «Era la via delle botteghe di alabastro. Ha visto più trippa e vino… Erano mille, intagliavano e cantavano, donne e bambini lustravano, si lasciavano impronte di polvere bianca come in una neve perpetua».
Ora l’alabastro per Volterra viene dalla Spagna, come le arance in Sicilia, le cave vendute alla Knauf, che ne fa il cartongesso… Andrea Bianchi, architetto, evacuato anche lui, è impegnato con geologi e costruttori a rimettere in sesto il crollo con le modalità della “somma urgenza”: incarico del Comune e soldi, per ora, della sola Regione. C’è Ilaria Tognarini, 39 anni, pittrice e ceramista, Alessio Marolda, 27, pittore. Giacomo Saviozzi è il fotografo, ha pubblicato un libro sul manicomio, “L’interruttore del buio”. Volterra, onusta di storia com’è, viveva del manicomio e del carcere- fortezza. Con l’aggiunta delle saline — fiorenti al tempo del monopolio, il salgemma pregiato per la chimica fine — fomentavano, dicono, “la cultura del 27”, il giorno fisso dello stipendio, a scapito della creatività culturale. Per farsi strada si andava via, come lo scultore Mauro Staccioli a Milano negli anni ‘50 — “ma torna sempre” — o il writer Nico Lopez Bruchi oggi. Sull’asfissia progressiva provocata dai tagli a tutto ciò che sa di cultura, i giudizi sono unanimi. Non è qui la notizia che la frana porta a galla: piuttosto nella proliferazione di iniziative nutrite di inventiva e buona volontà. Illustri alcune, benché sempre costrette a divincolarsi fra gelosie e suscettibilità, come la Compagnia della Fortezza, che in 25 anni ha trasformato un istituto di pena in un istituto di cultura, e il festival annuale di teatro, animati da Armando Punzo, che persegue tenacemente il progetto del primo teatro stabile dentro il carcere.
C’è il festival del jazz, e quello del teatro romano (il parco archeologico romano, ai cui scavi furono decisivi i pazienti del manicomio, basterebbe a render preziosa Volterra), c’è lo “Hidden Theater”, il “teatro di nascosto” dei reportage di Annet Henneman. C’è l’università di Detroit (“la città più fallita del mondo” ha ristrutturato un palazzo storico, di cui disporrà per 30 anni), e l’università canadese di Windsor; la scultrice canado-giapponese Laura Shintani che si è innamorata dell’alabastro. C’è il Progetto Leonardo per giovani tedeschi impegnati al restauro di edifici cittadini, nella recuperata Villa Palagione, quella di “Vaghe stelle dell’Orsa”. C’è chi lavora a salvare il poco che si può delle vestigia del manicomio — che arrivò a essere una città nella città di più di seimila persone, e ospitò il titanico libro murario, graffito con la fibbia, da Oreste Fernando Nannetti (1927-1994), “astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale”, al cui lascito dilapidato lavora l’associazione “Graffio e parola”.
Elena Capone, critica e “ufficio stampa” del Caffè, va avanti con l’elenco delle iniziative culturali, preoccupata che ne lasci fuori qualcuna: succederà. Intanto arriva Bruno Niccolini, 76 anni, già operaio dell’Enel, socialista ecologista pacifista, “storico del territorio in tutti i suoi angoli”, ha scritto 11 libri sul Volterrano, ha gli ultimi tre tomi sui “Luoghi di Velathri” sotto il braccio. «La mia università l’ho fatta fra le capre di Micciano» — che è una frazione di Pomarance di 65 abitanti, vedo, capre non so. È un fiume in piena, ed enumera acque e fontane. «Ho contato almeno 75 sorgenti a Volterra, e d’estate manca l’acqua! C’è lo zampone dell’uomo ».
Volterra è un crostone di calcare arenaceo, pietre e sabbione, e sotto argilla, l’acqua drenata trova l’argilla impermeabile e scivola, è lo scorrimento che genera le balze. «Hanno chiuso la strada vicinale della Pescaia, le più belle mura etrusche non solo non si possono più vedere, ma franano. Passeggiarci sopra era almeno un modo di tenerle compatte…». Ha appena visitato una tomba etrusca “costruita”, raro esempio, «perché erano scavate, perciò le chiamiamo buche. C’erano due tholoi, uno è franato, l’altro è affogato nei lecci e nei rovi …». Massimiliano Casalino, consigliere provinciale, fa i numeri dello spopolamento e dell’invecchiamento, ricorda che l’ultimo piano risale al 2009, che l’allarme riguarda l’intero centro storico, che manca un vero investimento culturale. C’è la Deposizione del Rosso, c’è Finaz della Bandabardò, l’Urna degli sposi e l’Ombra della sera, e il Duomo e il Battistero come in ogni città toscana, ma più sobri e austeri. Volterra è meno elegante di Lucca e Siena, meno dolce della Toscana di collina, anzi a volte, isola nel vento e nelle nuvole, è arcigna e quasi cupa, ma i tramonti dalla frana Lungo le Mura o dal Maschio inciso dai galeotti glieli può contendere solo una Sant’Elena nell’oceano.