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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

A MARCO RD PANTANI RELIQUIE E QUOTIDIANITÀ I LUOGHI SIMBOLO DEL PIRATA TRA IL MITO E LA TRAGEDIA


DAL NOSTRO INVIATO RIMINI — La ragazza a mollo in piscina con guanti e cappello da sci augura a tutti un caldo inverno. E forse ha ragione lei. In fondo non si può vivere di ricordi, e di tristezza.
All’ingresso del Parco Fellini, dove cominciano le vie da copertina della città, c’è un gigantesco cartellone che pubblicizza l’albergo del momento. L’hotel Le Rose ha perso il suffisso residence, sostituito da un più elegante suites . Nel giro di pochi anni ha anche guadagnato una stella. La facciata è diventata bianca, l’atrio si è allargato, giovani cameriere in divisa offrono aperitivi e stuzzichini. Alcuni bagnanti sorseggiano champagne immersi nella piscina all’aperto del centro benessere.
Adesso non c’è più nulla che ricordi l’anonima pensione dove andò a morire Marco Pantani. La stanza al quinto piano dove scontò i suoi ultimi giorni non esiste più, nel nome della ristrutturazione e dell’opportunità. Anche via Regina Elena è cambiata. In quei giorni sembrava una mesta periferia della città sinonimo di divertimento a ogni costo. Oggi ne è diventata parte, con le vecchie case in muratura sostituite da palazzi in vetro e acciaio, i-suite e lounge con le finestre illuminate da luci che ogni minuto cambiano colore.
«All’epoca non era un posto malfamato, ma molti lo descrissero così. Infangare noi significava infangare lui, mostrare in quale buco si fosse rintanato». Marco De Luigi ci aspettava. Sa cosa comporta l’anniversario tondo. Se vuoi ripercorrere quel che è stato, devi partire da dove tutto è finito, il suo hotel. «Non è piacevole essere ricordati per una morte violenta. Albergatori da tre generazioni, e all’improvviso ci trovammo additati come drogati. Non lo eravamo noi, non lo era lui, di questo sono ancora convinto». Il proprietario de Le Rose affronta il colloquio come fosse una penitenza. Mentre parliamo, passa veloce una signora con l’aria indaffarata. È Larissa, la governante che in quegli ultimi giorni fu l’unico contatto di Pantani con il mondo esterno. Ancora oggi non ne vuole parlare. Nella hall sono vietate telecamere e macchine fotografiche. «Le vecchie storie ti vengono sempre a cercare» dice De Luigi. «Ma a tutto c’è un limite. Gradisce un aperitivo?».
«Andate a vedere cosa è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza». A richiesta, Denis Boschetto mostra la reliquia. È l’originale del passaporto di Pantani, molto più malconcio delle copie che vengono messe in vendita a cinque euro l’una. Lo custodisce sotto al banco del museo che gli hanno dedicato, accanto alla stazione della sua Cesenatico. Durante l’ultima vacanza a Cuba ci scrisse sopra la frustrazione e la tristezza che lo accompagnarono nella solitudine della Rimini d’inverno. Era un messaggio sgrammaticato, sconnesso, eppure così vero da essere diventato un testamento, riprodotto nel quadro all’ingresso di questa specie di mausoleo aperto nell’ottobre del 2006, che raccoglie i dipinti che faceva da ragazzo, le maglie e le bici delle vittorie più belle, ma prima obbliga a leggere quelle parole di torrida tristezza. «Io non mi sono più sentito sereno e ho finito per farmi del male». Come se da lì si dovesse per forza partire.
Ci sono passate quasi trentamila persone, soprattutto turisti d’estate e bimbi delle scolaresche in visita guidata. Nell’ultima sala c’è la rassegna stampa del Giro e del Tour 1998 appoggiata su un leggio, come un libro sacro. Sul tavolo accanto ci sono altri sette faldoni che raccolgono il resto della storia, ma alla rinfusa, in una sorta di disordine organizzato che mischia imprese e tragedia, ovazioni e insulti, la luce e il buio. «Abbiamo voluto che fosse così» dice Denis Boschetto, il cugino che cura il museo per conto della famiglia. «Con Marco non puoi tenere le due cose separate».
In questa scelta di unire il prima eroico e la catastrofe di un dopo che comincia con l’ematocrito alto del 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio c’è molto del lascito di Marco Pantani. L’eroe che divenne un rinnegato, l’idolo caduto sul quale venne esercitato un accanimento molto italiano. Dopo dieci anni e la verità su Lance Armstrong presunto eroe del ciclismo pulito, forse occorre ripartire dalle parole di una madre. «Se Marco faceva certe cose, le faceva come tutti gli altri». Tonina Pantani non si accontenta di gestire un ricordo che cresce come le presenze al museo, quasi che il tempo trascorso avesse unito nel rimpianto i partigiani della purezza e i teorici della cospirazione. «Solo a lui non è stata concessa una seconda possibilità, come se non dovesse più tornare a correre».
Anche lei è dovuta venire a patti con la caduta di suo figlio e ci è voluto molto. Si torce le mani mentre racconta gli ultimi giorni, e i presagi di quella notte. Il rancore di questi anni ha fatto spazio a una rabbia lucida, la stessa con la quale espone l’intenzione di chiedere alla Procura di Rimini la riapertura dell’inchiesta. «Troppe cose che non quadrano nella sua morte. Non penso a nessun mistero, a nessun complotto. Ma sono una madre che ha diritto di sapere la verità sulle ultime ore di suo figlio».
Marco Pantani è un caso ancora aperto, e almeno per ora la cronaca giudiziaria non c’entra nulla. C’entra piuttosto un senso di colpa abbastanza diffuso, la sensazione, meglio, la certezza, che lo sportivo più amato dei nostri tempi recenti abbia pagato un conto feroce, abbia pagato molto più di quanto meritasse. Il viaggio nei ricordi finisce sul lungomare di Cesenatico davanti alla statua di Marco, in una piazza deserta, un monumento che ispira solitudine, con una lapide inusuale, certo non pacificata. Passano due vecchi amici, appena usciti dal vicino bar dei Pini, il suo bar, che il 2 agosto 1998, ordinò un quintale di ciambelle e trenta damigiane di vino per festeggiare il campione che tornava a casa. «Lo vediamo ogni giorno, e ogni giorno pensiamo che non doveva andare così».