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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

PROCESSO AL ’68. PER STUPRO


Il Tg della sera fece addirittura questo titolo: «Leader del ’68 condannato per stupro». Messa così, era una condanna a un intero movimento, lo sgretolamento di un mito. Si era nel cuore degli anni Ottanta, negli spensierati anni Ottanta. Il ’68 accostato allo stupro? Gli squillanti domani che cantano intrecciati a una vicenda spregevole? Del resto, non era solo il Tg della sera. Anche tra i suoi amici e compagni — gli amici del leader accusato, si intende — ci fu chi, come il «Carisma», si fece afferrare dal più cupo pessimismo politico: «”Questo è un attacco al ’68”, sentenziò con la sua voce di basso profonda». Che poi il «Carisma» era Mario Capanna, celeberrimo leader del Movimento Studentesco milanese. E a riferire quell’osservazione di Capanna adesso è Popi Saracino, che era stato anche lui un celebre leader del Movimento Studentesco, e che era esattamente il «leader del ‘68» accusato per stupro. Poi assolto. Innocente. Vittima di un errore giudiziario. Ma intanto il ’68 se la cavava. Lui, Saracino, ne sarebbe rimasto marchiato a vita.
Le vicende giudiziarie passano come pesanti rulli che schiacciano le vite delle persone. Quello di cui si sta parlando è un lontano fatto di cronaca dimenticato dall’opinione pubblica: «Come si chiamava quello del ’68 accusato per stupro all’inizio degli anni Ottanta? Ah sì, Saracino, Popi Saracino. E lei, la ragazza più giovane, l’allieva che lo aveva accusato? Simonetta Ronconi, si chiamava». Nelle nebbie vaporose della cronaca. Ma nella carne viva di Popi Saracino, che oggi propone quella storia in un breve e denso memoir, un’autobiografia sotto forma di ritratto letterario, «la versione di Popi», e che i lettori possono acquistare in ebook (edito da Vanda Epublishing). Un supporto modernissimo per riesumare una storia del Novecento appena trascorso. E per riflettere sulla violenza delle reputazioni date in pasto ai media famelici, alle generalizzazioni irrispettose della dimensione personale.
Saracino venne assolto perché «il fatto non costituisce reato». Con formula piena, come si diceva quando era in vigore il vecchio codice di procedura penale che prevedeva ancora la mannaia dell’«insufficienza di prove», un modo retorico per dire che tutto il mondo ti considera colpevole, ma purtroppo non ci sono gli elementi probanti che possono dimostrarlo. Come se l’essenza dell’azione giudiziaria non fosse proprio questa: illustrare le solide prove di un’accusa. Altrimenti non è Stato di diritto, ma giustizia sommaria.
E giustizia sommaria, nei titoli del Tg e nelle pagine dei giornali, fu. Fu giustizia sommaria tra molti collettivi femministi cresciuti sull’onda del ’68 di cui Saracino fu protagonista e che emisero un inappellabile verdetto di condanna sulle parole di una donna e ignorando totalmente le accorate dichiarazioni di innocenza del «mostro maschilista». Fu giustizia sommaria nelle redazioni dei giornali che gradirono molto questa perversa commistione di sesso e ’68. Fu giustizia sommaria per i moralisti e gli scandalizzati di professione perché il «fattaccio», come lo ribattezza Saracino, accadde a poche ore dall’uccisione di Walter Tobagi. Il nesso fattuale tra i due eventi naturalmente era quanto mai evanescente. Ma la coincidenza temporale sembrava fatta apposta per sottolineare in quali abissi di frivolo cinismo potesse cadere un rappresentante del ’68. Mentre i terroristi rossi sparavano e ammazzavano, un loro ex compagno si dedicava criminalmente alla violenza sessuale per martirizzare con i suoi bassi istinti una povera allieva, vittima dell’arroganza del nuovo potere.
Del resto i terroristi di cui sopra, in una specie di referendum tenuto nei penitenziari di Padova e San Vittore in cui Saracino era stato incarcerato (innocente), optarono per l’ostracismo punitivo nei confronti dello stupratore: stare in carcere contro la «democrazia borghese» o per aver violentato una donna come asseriva la ragazza e come perentoriamente affermavano le compagne femministe era tutta un’altra storia, moralmente, a loro parere, molto più riprovevole.
E invece no, in Appello la sentenza proclamò l’innocenza del reprobo. La reputazione del ’68 era salva. Le colpevoliste si misero presto l’anima in pace. Per Saracino, passata l’euforia dell’assoluzione, cominciò invece un periodo di amarezza e di ripiegamento. A leggere queste pagine, almeno, si ha questa impressione. Pagine segnate dallo sconforto. Ma anche da una struggente nostalgia per una stagione di cui certo non si condividono più le espressioni ideologiche, i rituali, le liturgie, i dogmi, ma di cui rimane un’aura indelebile.
Il ’68, passaggio-chiave della biografia di Saracino, di questo schizzo autobiografico e dell’interesse morboso della vicenda giudiziaria appena evocata, non viene idealizzato e colorato di rosa. Il Movimento Studentesco di Milano, del resto, e Saracino si immagina che lo sappia, non godeva nemmeno di un’ottima reputazione «libertaria» con tutto quell’armamentario di «Katanga» e di bastoni nodosi orrendamente ribattezzati «Stalin». Ma in queste pagine ne viene rievocato, senza fastidioso autocompiacimento, uno spirito di avventura che banalmente è lo spirito di avventura dei vent’anni, quando il mondo sembra una porta spalancata verso le infinite possibilità e ci si sente protagonisti della Storia con ogni probabilità in modo abusivo, ma almeno con sincera convinzione.
Per questo La versione del Popi può essere letto come un frammento di un passato condiviso che ha pure una sua rilevanza letteraria (o cinematografica). Un passato che fu bruscamente interrotto da una brutta vicenda che cambiò per sempre la vita del «leader del ’68 accusato di stupro». E che oggi può rivivere, senza acrimonia e in modo più posato, in un libro che ci permette di vedere quello che abbiamo lasciato dietro. Macerie. Ma non solo.