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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

ITALIANI RASSEGNATI: IL VENTO ERA CAMBIATO

DAL NOSTRO INVIATO LUGANO —

Visto da piazza della Riforma, dalla sponda del lago riscaldata dal sole, il voto con cui gli svizzeri (e i ticinesi in particolare) hanno detto sì all’introduzione di limiti all’immigrazione non ha nulla di sorprendente. Ma anche spostandosi poco più a sud e riattraversando la frontiera di Chiasso, il responso di ieri non è giunto inatteso. «Gli italiani che lavorano al di là della frontiera lo avevano capito da tempo che sarebbe andata così. Stavamo esercitando troppa pressione sul loro sistema; e ancora una volta abbiamo sottovalutato la situazione»; la ricerca del perché il 68% dei ticinesi voglia mettere le distanze tra sé e i «cugini» lombardi deve partire dalle parole di Giovanni Moretti, comasco, che di mestiere fa il consulente per le imprese che lavorano al di qua e al di là del confine italo — elvetico. «Se ai 60mila frontalieri che ogni giorno partono dalla Lombardia e dal Piemonte — racconta — aggiungiamo i 90mila stranieri residenti stabilmente in Ticino, su una popolazione di 330mila abitanti, ne esce un dato inequivocabile: ogni 3 svizzeri che vivono qui, ci sono 2 immigrati. Provate a immaginare cosa accadrebbe se una proporzione del genere si riproducesse in Italia. Detto questo, tutti speravamo che l’esito del referendum fosse ben diverso». «Anche i miei contatti mi dicevano che tirava una brutta aria — ammette Claudio Pozzetti, componente del consiglio per gli italiani all’estero e per anni rappresentante sindacale dei frontalieri —. Ma adesso Bruxelles non può stare a guardare: se la Svizzera dovesse assumere decisioni contrarie ai trattati comunitari che danneggiano la libera circolazione delle persone bisognerà intervenire subito».
Ma i vincitori della tornata referendaria di ieri non lasciano cadere del tutto il ramoscello d’ulivo. «Gli italiani che già oggi lavorano da noi non hanno nulla da temere e non verranno cacciati. Ma su eventuali nuovi arrivi saremo intransigenti, fin da subito» ammonisce Pierre Rusconi, parlamentare dell’Udc, il partito che ha condotto al successo la consultazione smentendo ogni pronostico. Una cosa però Rusconi la mette in chiaro fin da subito: «Berna ha tre anni di tempo per rinegoziare gli accordi con Bruxelles ma non lasceremo di certo passare così tanto tempo. Incalzeremo il governo perché si giunga il prima possibile a un nuovo trattato ma qui, in Ticino, faremo scattare immediatamente controlli sui cantieri, alle frontiere. Vogliamo il rigoroso rispetto delle norme da parte di chi viene a lavorare da noi». Rusconi e il suo partito insomma metteranno a frutto immediatamente il segnale politico scaturito dalle urne, senza aspettare le diplomazie e il dialogo con Bruxelles. Imitati in questo e con toni molto più baldanzosi dalla Lega dei Ticinesi, l’altro partito che qui ha fatto aperta campagna per il sì: «Ne abbiamo le scatole piene di sentirci dire che la nostra economia ha bisogno di stranieri – dichiarava ieri il deputato Lorenzo Quadri – ne abbiamo le tasche piene della criminalità che arriva da oltre confine, non tollereremo più che magistrati italiani o ufficiali della Guardia di Finanza vengano a Lugano a minacciarci o a trattarci come ladri». Il riferimento è a un convegno tenutosi pochi giorni fa, nel corso del quale il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco ha avuto parole severe nei confronti del sistema bancario elvetico. Parole che, nell’elettorato ticinese non hanno probabilmente accresciuto la simpatia verso gli italiani. «A fine gennaio — riprende il filo del discorso Moretti — al vertice di Berna l’Italia ha voluto fare la voce grossa sui conti esteri. Abbiamo fatto un po’ i ganassa, come si dice a Milano, senza renderci conto che con la Svizzera la corda era già abbastanza tesa. Adesso occorre capacità negoziale, ma su temi concreti». «Ma il voto espresso col referendum — analizza Lino Terlizzi, vicedirettore del Corriere del Ticino — è figlio di una storia antica che si lega a quando nel ’92 la Svizzera respinse l’adesione allo spazio comune europeo. Certo, ora si apre un problema, perché non dobbiamo dimenticare che un franco su 2 che guadagniamo qui è frutto dei nostri rapporti con l’Europa. Ma la vera incognita è legata al futuro: oggi i fondamentali dell’economia sono positivi, la disoccupazione si mantiene al 3,5% ma cosa succede allargando i confini a una Ue con non è più quella con la quale sottoscrivemmo gli accordi del ’99 ma si è allargata a Est?».