Giancarlo Perna, Il Giornale 10/2/2014, 10 febbraio 2014
L’EX PM IN GUERRA CON AL QAIDA FINITO NEI GUAI PER UNO SCHIAFFO
Dominato dal suo ego, Stefano Dambruoso, il deputato di Scelta civica che ha spintonato la grillina Loredana Lupo, è naturalmente portato all’esuberanza. La scena gladiatoria di una settimana fa nell’aula della Camera è nota. Quelli del M5S, irati contro Laura Boldrini che aveva «ghigliottinato » la loro filibustering su un decreto sgradito, erano balzati in massa dai banchi, irrompendo nell’emiciclo, diretti allo scranno presidenziale. Se fossero arrivati alla Boldrini le avrebbero sicuramente guastato lo chignon . Inaccettabile per Dambruoso che, in veste di questore-anziano, doveva garantire la presidente nella sua interezza e guidare la marcia antisommossa dei commessi subito accorsi.
Ecco la ragione per la quale il Nostro, uomo d’azione per essere stato un noto pm antiterrorismo, si trovò al centro della baraonda e sulla esatta traiettoria di una furiosa pentastellata che, sconosciuta ai più, fu in seguito identificata per Lupo, non senza delizia per la corrispondenza tra il nome e l’atteggiamento. Vedendo la giovane avviarsi decisa verso lo chignon presidenziale, Stefano non esitò a darle uno spintone. La ragazza, barcollante, stava per essere bloccata dai commessi, quando Dambruoso che è aitante come un eroe omerico, le dette un secondo spintone e, a detta di Lupo, perfino uno schiaffo. L’uno e l’altro ormai superflui e spia del vizio che Stefano ha di strafare.
Con ciò, Lupo, fin lì nota solo per un intervento in aula in cui disse, tra la commiserazione dei più, che «la celiachia non è una malattia ma la conseguenza della globalizzazione», è diventata famosa e vezzeggiata come vittima. Dambruoso, all’opposto, da celebrato uomo di legge e magistrato pluridecorato, si è fatta fama di brutalone ed è stato sommerso di minacce, estese a moglie e figlio, dai soliti gentiluomini del web .
Va detto che il cinquantaduenne ( a metà marzo) deputato di prima nomina ha l’istinto un po’ questurino tipico degli ex pm - Di Pietro e Grasso, per dirne due- e una ripulsa spontanea per i confusionari, di cui i M5S sono quintessenza. Nell’autunno 2013 ebbe già uno scontro con il pentastellato, Luigi Di Maio, ventisettenne vicepresidente della Camera, tipo peraltro perfettino e tra i pochi dei suoi a parlare con proprietà. L’imberbe voleva raggiungere dei colleghi di partito saliti sul tetto di Montecitorio per una delle loro quotidiane proteste. Il questore Dambruoso glielo impedì, spiegando così il divieto: «Ho ricordato il regolamento. Di Maio sosteneva che era un atto politico e quindi poteva salire. Gli ho detto che in base alle mie conoscenze giuridiche non era così ». «E Di Maio? », chiesero i cronisti. «Ha risposto che anche lui conosceva il diritto perché era al terzo anno fuori corso di legge».Il sarcasmo è evidente e indicativo della diffidenza di Stefano per la modesta alfabetizzazione di diversi M5S (non di Di Maio), quasi indizio, per i suoi sensori da ex magistrato, di tendenza a delinquere. Aggiunse poi, travalicando i limiti: «Gli ho anche rammentato che lui (Di Maio, ndr ) ha chiesto con insistenza la stanza molto bella liberata dal ministro Lupi (il precedente vicepresidente della Camera, ndr ) ». Argomento che c’entra come un cavolo a merenda, quasi che uno, avendo preteso una bella stanza, non possa salire sul tetto. Pura spregiudicatezza dialettica del nostro Stefano, pronto a mettere in cattiva luce l’avversario pur di imporsi.
Il barese Dambruoso divenne magistrato a 28 anni, nel 1990. Due anni dopo, era sostituto procuratore ad Agrigento. Circostanza irrilevante ma che cito perché lì incontrò sua moglie, la bella parmense Bruna, pure lei magistrato, e perché fu il suo primo aggancio con Angelino Alfano, nativo della città e futuro Guardasigilli di cui diventerà collaboratore. Dopo un tirocinio antimafia a Palermo, Stefano fu catapultato alla Procura di Milano dove si trovò come un pesce rosso che passi dal vaso alla tonnara.
Era il 1996, l’epoca d’oro del celebre pool dei Borrelli,D’Ambrosio, Bocassini e & co. Dambruoso fu accolto, parola grossa, come un ragazzo di bottega. Relegarono il pischello a occuparsi di terrorismo internazionale di cui si infischiavano tutti, impegnati com’erano a sbattere ingalera il gotha della politica nazionale. Stefano sembrava su un binario morto quando, con l’11 settembre 2001, il suo settore, grazie ai bombaroli islamici, divenne di gran moda. Ci si buttò a capofitto, ascoltando migliaia di registrazioni lasciate nei cassetti e riprendendo piste orientali trascurate. In breve, ottenne ottimi risultati, come l’arresto di Essid Sami Ben Khemis che forse preparava un attentato al Duomo di Strasburgo. In un batter d’occhio, divenne così famoso come magistrato anti al Qaeda che una sua inchiesta fu citata dall’allora Segretario di Stato Usa, Powell, in un discorso al Congresso, e Time lo inserì nel 2003 in un lusinghiero elenco di «eroi moderni». Sigillo dei sigilli: gli fu data una bella scorta. Era famoso.
E impazzì. Da allora Stefano, bravo ragazzo schietto, alieno dai giri autoreferenziali della sinistra in toga, gran lavoratore, cercò in ogni modo di capitalizzare ilsuccesso che gli era caduto in grembo. Ce lo trovammo a pranzo e cena in tv, dilagò nelle interviste, scrisse libri a quattro mani con noti giornalisti. Soprattutto, non volle più saperne della Procura milanese. Fu a Vienna all’Onu come esperto antiterrorismo, poi a Bruxelles e fu richiesta dagli Usa perché dicesse la sua su questo e quello. Infine, si insinuò anche in lui il serpentello della politica. Ha sempre navigato tra centro e centrodestra. Alfano lo chiamò con sé al ministero della Giustizia nel 2008, la Prestigiacomo lo prese all’Ambiente come vicecapo gabinetto, il Pdl ha pensato a lui come anti Vendola alle regionali pugliesi del 2010, Enrico Letta lo ha invitato alle riunioni di VeDrò in Trentino, Montezemolo lo ha voluto a Italia Futura, Monti lo ha fatto deputato. Per dieci anni, ha vorticato come una trottola senza una precisa direzione di marcia.
Vitalità corrusca e smania sfrenata che il 13 settembre 2006, a quarantaquattro anni, gli hanno giocato un brutto tiro. Era a Bruxelles, per uno di quegli incarichi che placavano la sua vanità, quando svenne e batté la testa contro lo spigolo della scrivania. Giacque in coma per otto giorni, trascorse due mesi in ospedale, perse l’uso della parola e la recuperò solo dopo lunghe cure. Il fatto che non abbia imparato nulla da questa esperienza, indica che sta benissimo e che ci darà nuove occasioni di occuparci di lui.