Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 10/2/2014, 10 febbraio 2014
LOREDANA BERTE’ IO SONO UNA SIGNORA E TORNO PER CANTARVELE
I nostri genitori e lei non ha idea di quanto mi costi dire questa parola, erano insegnanti. Mamma maestra e papà professore di Greco e Latino al Liceo con qualche vocabolario nel curriculum. Era violento. Voleva un figlio maschio e detestava le bambine. Ha fatto cose orribili che non ho dimenticato. Ha preso a calci mia madre e le ha somministrato strane cose. A casa c’era il terrore, ma nelle domeniche di festa, accanto al cane Clito, si ricreava una specie di normalità fittizia. Una volta al mese veniva Pietro Nenni a prendere il caffè e allora mamma tirava fuori la coperta di ciniglia rossa e io mi sedevo sulle ginocchia di Nenni, mentre lui girava lo zucchero nella tazzina”. A 62 anni, con gli occhi neri, il cappello e la risata cruda, i ricordi di Loredana Bertè sanno di trincea. Di guerre mai finite, fumo, tenerezze improvvise, lampi atroci e confessioni. Milano, pomeriggio invernale. Nel volo a planare, Loredana è più fortunata che nelle sue canzoni. Al posto del peggiore motel, la stazione paradiso si chiama Chateau Monfort. Omaggi, inchini e vassoi di dolci. Resistenza tenue. Dieta tradita. Bigné santificato. Battuta pronta: “Uno me lo mangio subito, sono cresciuta con Bukowski, Baudelaire e Ginsberg, non è che me può spaventà ‘na pastarella”.
Si ricorda il tempo della fame?
Più che altro quello della gavetta, le corse per fare un provino, la febbre che questi ragazzi dei talent, sfruttati per un solo brano strimpellato a Sanremo non sanno neanche cosa sia. Il periodo di Roma è stato il più felice della mia vita. Non avevamo niente e ci pareva di avere tutto. Io, Mimì (la sorella Mia Martini ndr) e Renatino Zero eravamo sempre insieme. Il trio indissolubile. Io facevo l’autostop e loro si nascondevano dietro la pompa di benzina. Quando qualcuno mi vedeva in minigonna inchiodava e da dietro spuntavano loro. Lei con la bombetta, lui con i suoi vestiti colorati, io innocente: “Ci sarebbero pure ‘sti due amici”. A via Asiago con il gruppo di Boncompagni e Arbore passavamo le giornate. Chi stava con i Rolling Stones e chi, noi compresi, con i Beatles. Li avevamo visti dal vivo all’Adriano. C’ero stata quattro volte. Una cosa irripetibile.
Cosa ricorda del ’68?
Occupavamo le scuole e credevamo di cambiare il mondo, ma se il risultato è questo abbiamo fallito. Eravamo diversi dai 18enni di oggi. Non si parlano più, non riescono a esprimere una frase di senso compiuto, sembrano vegetali interessati solo all’ultimo modello di telefonino. Io neanche ce l’ho.
Perché?
Che mi frega di averlo quando ho perso la telefonata più importante della mia vita? Prima di morire mia sorella Mimì mi chiamò a lungo. Ma quel giorno c’era un’aria strana, ero svogliata. Svuotata. Avrei dovuto suonare e invece mi nascosi in casa. Convinta che mi cercassero gli organizzatori furibondi, al telefono non risposi. Suonò fino alle 6 di mattina. Non me lo perdonerò mai.
Sua sorella è morta a maggio, 19 anni fa.
L’infamia che le hanno fatto è scandalosa. Se vuoi uccidere uno troppo bravo, basta che tu dica ‘quello porta jella’. L’hanno ammazzata. E certo che ce l’ho con quell’assenteista del cavolo che sta lassù. Ma poi c’è davvero?
Parla di dio?
Dov’era quel cazzo di venerdì? Aveva da fare? Era troppo impegnato? Da quel giorno ho litigato con la vita e non ci ho ancora fatto pace. Mimì la sento sempre con me e non è vero che il tempo cancelli il dolore, anzi lo aumenta. È come se fosse successo ieri. Mi chiusi in casa. Tre anni a guardare un soffitto. Ne uscii grazie a De André. Avevo ascoltato La domenica delle salme e decisi di chiedergli il permesso per utilizzare un suo verso che avrebbe dovuto dare il titolo all’album. Passai da Dori Ghezzi, amica fantastica. Ero stata testimone del suo innamoramento per Fabrizio durante un mese torinese ai tempi del Quartetto Cetra. Fu sincera: “Se a Fabrizio piace il disco avrai l’ok, altrimenti scordatelo”. Fabrizio ascoltò i brani e mi chiamò: “Sto mandando il fax alla Sony, è bellissimo, hai la mia benedizione”. Nacque Pettirosso da combattimento. Tutto dedicato a Mimì.
Ricorda tutto di quel 12 maggio del ‘95 ?
Ogni dettaglio. Sto guardando la tv, vedo Mara Venier che piange. Cambio canale. Una foto di Mimì. Poi squilla il telefono. È Renatino. Mi dice: “Spegni tutto, sto arrivando”. Credo fosse teletrasportato, fu lì in cinque minuti. E Mimì se ne era andata per sempre. In quella casa schifosa che gli aveva trovato suo padre, con gli scatoloni nell’angolo e il materasso per terra. Che peccato. Che dolore. Mimì a un passo dalla fine cantava in modo straordinario. Capita anche a me. Ho una voce più sicura di quando avevo vent’anni.
Come mai?
Intanto mi sento più serena. Felice è una parola troppo grossa. Il palco è la mia valvola di sfogo,lì raggiungo uno stato di grazia,per tirarmi giù ci vuole il carrattrezzi. Ho un repertorio che abbraccia quattro generazioni e canto prima di tutto per me stessa. A 60 anni e arrivati a questo punto, non mi cambia più nessuno. Neanche Umberto Eco.
Che c’entra Umberto Eco?
Anni fa ho avuto l’onore di mettere in musica le parole di Mario Luzi. Quando Eco lo venne a sapere sfiorò lo sturbo: “Maestro, dicono che una metallara stia lavorando sui suoi testi, mi dica che è falso”. E Luzi, secco: “È vero, si chiama Loredana Berté ed è un genio”.
Cose belle.
Cerco qualcuno che mi capisca fino in fondo. Mi vuoi? Pacchetto completo. O mi si odia o mi si ama. E anche se non si può piacere a tutti e sono contenta di vedere il tutto esaurito per la tournée che è in corso, a stare zitta non sono mai stata capace. Se lo faccia raccontare dai diplomatici svedesi.
Cosa dovremmo chiedergli?
Quanto gli ho rotto il cazzo per dire la mia e farmi rispettare. Quando sposai Bjorn, non sapevo che per qualche anno avrei fatto il giro del mondo ogni due settimane. Borg era ambasciatore della Corona. Andammo ovunque. In Giappone, dall’Imperatore, li misi in imbarazzo. Io e Bjorn eravamo seduti lontani, scambiai i bigliettini e mi accomodai vicino a lui. Accorse un addetto, terrorizzato : “Non si può signora”.
E lei Loredana?
Me feci sentì: “E chi l’ha detto che non si può? Senti cocco, quello è mio marito, vedi d’annattene”. A cena portarono scorpioni fritti. Sto a dieta, gli dissi, mangiateveli voi.
Reazione?
“Ma signora” risposero “il veleno è stato tolto”. “Benissimo, allora mi piacerebbe sapere che fine hanno fatto quelli che hanno eseguito l’operazioncina”. Mi guardarono malissimo, gli scorpioni alla fine li mangiò un altro tennista, Stefan Edberg e in Cina, superandomi, feci di peggio. Di questi convivi in cui sembrava che le donne non esistessero, iniziavo davvero a rompermi i coglioni. La più grande trasgressione che esista è essere se stessi. Così, a cena con le autorità, mi feci sentire.
In che modo?
“Domani pretendo di visitare la città proibita”. Avevo visto il film di Bertolucci e insistetti fino a quando, esausti, non si arresero. Sul luogo esagerai. Scostai un nastro, raggiunsi il trono e mi feci fotografare. Poi volli andare anche sulla muraglia cinese e mi fregai con le mie mani. A valle c’erano 40 gradi, ma una volta in alto gelammo. Rubai il cappotto a un fotografo.
A New York conobbe Makos, secondo Warhol il “più moderno fotografo d’America”.
Fece, gratis, lo scatto di copertina di “Made in Italy”. Nel 1981 ero la madrina di Fiorucci e grazie a Leonardo Pastore, un mio fratello acquisito poi morto di Aids, conobbi Warhol. L’avevo puntato.Lo volevo acchiappà.
Ci riuscì?
Anche se Ivano Fossati, che mi accompagnava, ogni tanto mi scuoteva :“Te lo ricordi perché sei qui? Il disco”, non avevo praticamente niente da fà. Warhol lo conobbi in un posto in cui si affacciava tutti i giorni. Mi domandò se cantassi e Leonardo, rapido: “Vedessi come cucina”. Warhol impazzì: “Potresti farlo per me?”. In breve, seduta sui bidoni Campbell’s, mi ritrovai alla Factory tutti i pomeriggi.
Da ospite a cuoca il passo fu breve?
Andai da Bloomingdale’s, comprai uno scolapasta e lo portai da Andy. Non l’avevano mai visto. Lo fotografarono stupiti. Lui organizzava cene di lavoro e mi chiedeva di mettermi ai fornelli. Mi chiamava “Pasta Queen”. Io mi feci ‘ripagare’ con un suo video e con la copertina del disco. Il baratto era nelle mie corde, al figlio di Sofia Loren toccavano ricatti seri: “Vuoi che spignatti? Allora prestami la casa di Malibù”.
Poi il disco venne bene?
Come per magìa, tra un concerto dei Ramones, il Rocky Horror picture Show e le ore passate in estasi davanti a Guernica. Ivano mi portò in studio, mi intimò di smetterla con mosse, risatine e cagate e registrò. Buona la prima. Sempre: “Questa è battezzata” diceva. Voleva la spontaneità. Che i brani non si viziassero. Aveva ragione. Nella mia carriera è sempre stato così, da Sei Bellissima in poi. L’incisione iniziale è sempre la migliore. Un atto politico.
Lei è stata sempre di sinistra.
Ho anche fatto acquistare 5.000 azioni del Manifesto a Fidel Castro, ma credo di essere l’unica italiana ad aver cenato con Bin Laden alla Casa Bianca all’epoca di Bush padre. Chiesi a George Sr. a cosa servisse la Cia.
E il Presidente?
“Non serve a niente. È l’unica organizzazione del mondo che non deve rendere conto a nessuno”. Se guardi all’11 settembre capisci anche il perché.
Il Papa le piace?
Un po’ troppo buonista. Wojityla è stato un grande capo politico ma quello che mi piaceva era il suo predecessore, papaLuciani. Un giorno a Firenze, nei camerini di Patti Smith vidi una sua foto sulla custodia del violino. Patti fu diretta: “È il Papa che hanno ammazzato”
Torniamo a New York, la città dei suoi incontri amorosi.
I maschi hanno paura. Non esistono più. È incredibile la quantità di uomini che servono per farne uno intelligente. Una cosa assurda, pazzesca.
Il primo marito, Roberto Berger, figlio di un miliardario.
Me lo nascose per due anni e dopo essermi pagata anche i caffè lo cacciai di casa prima che il padre lo diseredasse.
A New York incontrò anche Borg.
Fuori dal Madison Square Garden, ma Bjorn l’avevo già visto 15 anni prima, al Roland Garros di Parigi, da fidanzata di Panatta: “Amore, do dù pallate a ‘sto svedese e poi andiamo a cena”. Adriano si portava la ragazza e gli altri da Bertolucci a Barazzutti erano incazzati neri: “E perché quello se deve portà la donna e a noi niente?”. Comunque arriva questo nordico bello come il sole, uno sconosciuto. Tira fuori le racchette, perde male e poi va da Adriano: “Mi presenti la tua fidanzata?”. Mi disse che ero interessante. Fu gentile. Ogni tanto lo incrociavo in aeroporto, ero sfuggente, finchè accadde il fattaccio. Sembrava una cosa da niente, poi cinque anni dopo, una sera, ci ritrovammo insieme e sua moglie, Mariana Simiunescu, me lo gettò tra le braccia.
Dice sul serio?
Tra loro niente sesso. Per Bjorn, Mariana era una specie di sorella. Lei mi fa: “Guarda che stasera dopo la partita è libero, te lo porti dove vuoi”. Con gli amici andammo a vedere la sua sfida con McEnroe, sei ore. Warhol scappò al primo set. Io rimasi. L’incendio definitivo scoppiò durante un Festivalbar a Ibiza. Bjorn mi telefonò: “Devo vederti”.
E lei?
“Te dice proprio male bello, mi hai trovato per puro culo, sto partendo”. Lui: “Vengo anch’io”. Io: “No, tu no”. Alla fine cedetti perché l’idea che qualcuno potesse dominarmi e farmi fare quel che voleva iniziava a non dispiacermi. Cosa avevo da perdere? Ci sposammo. Lasciai l’Italia per sei anni, fu l’inferno.
Lui non sopportava le sue tournée.
Non mi lasciava un secondo. A ogni piazza, gli davano le chiavi ufficiali della città: “Abbiamo l’onore di avere con noi Bjorn Borg”. A un certo punto lo affrontai: “Ma è il tour mio o il tuo?”. Lui la mise giù dura: “Torniamo a Stoccolma” e mi fece stracciare un contratto milionario. I manager erano imbufaliti: “Sei pazza” e minacciavano querele. Ancora me lo ricordo Bjorn che si affaccia dalla scaletta dell’aereo e urla: “Fatemi causa”. Poi la fecero a me. Il circo suonò la grancassa della mia inaffidabilità, mi sporcarono la reputazione, mi massacrarono.
Quando si lasciò con il tennista? Qualcuno sostenne che fu colpa del guru che vietò il sesso a Borg.
L’avrei ammazzato il guru (ride). La storia fu un’altra e comunque, mai. Formalmente sono ancora la signora Borg. L’ho scoperto per caso e l’ho anche denunciato. È acqua passata, non ne voglio più parlare. Né di lui né delle sue coppettine.
Quali coppettine?
Bjorn era già molto preso dai vari bordelli che frequentava, non lo vedevo da 48 ore e tin-tin-tin gli ho buttato dalla finestra un divano, i piatti d’argento e tutte le coppettine dei suoi tornei. Dalla finestra della cucina vedevo Bambi, ma quel giorno si erano spaventati anche i cerbiatti. Era turbata anche la madre di Bjorn, le avevo scompagnato l’argenteria. Io ero molto incazzata e le parlai a brutto muso: “Se suo figlio non è qui entro 30 secondi me ne vado e chiedo il divorzio”.
Rientrò?
Strafatto. Bjorn era un aspirapolvere. Lo presi a botte, gli fracassai un paio di racchettine sulla schiena e quando la madre intervenne, gli diedi il resto: “Io mi sono sposata con te perché dovevi essere il padre dei miei figli, o te dai da fà oppure nun me vedi più”. Lui balbettava confuso, la stronza disse che avevo capito male e che non ci sarebbero stati figli se non di puro sangue svedese. “Avrei gradito l’informazione in anticipo”. Poi buttai un altro paio di medaglie dal balcone e me ne andai.
Nonostante questo lo racconta come un amore importante.
Ma lei quante volte pensa che l’amore si possa incontrare nella vita? A volte non accade mai.
Ha detto che è un sentimento sopravvalutato.
Perchè amare è appartenere. È coltivare. Ci vuole fatica, inventiva, fantasia. Ci vuole amore.
Cosa si aspetta ancora Loredana?
Sono quello che ho visto. Quello che ho fatto.Ho avuto una carriera più fortunata della vita privata, ma anche se il vero danno è stato nascere in Italia, non mi aspetto più niente. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo.