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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

L’ILLUSIONE DELLA REALTA’


DAL TITOLO CI FA SAPERE CHE È MEGLIO RASSEGNARCI PERCHÉ «LA REALTÀ NON È COME CI APPARE» (pagine 240, Raffaello Cortina Editore). Rovelli, fisico teorico che insegna all’università di Aix-Marsiglia, ci porta a spasso lungo 25 secoli per spiegarci come è cambiata la nostra immagine del mondo grazie ad alcuni grandi visionari della storia. Aiutato da un’ottima capacità narrativa, ci fa arrampicare sulle vette del pensiero di Democrito e Lucrezio, di Galileo e Newton, ci fa digerire cose complesse come la meccanica quantistica e la relatività di Einstein e ci costringe addirittura a prendere seriamente in esame alcune idee «estremiste» emerse dai recenti studi sulla gravità quantistica, come quella secondo cui il tempo non esiste. «A livello fondamentale il tempo non c’è. (....) ci sono processi elementari in cui quanti di spazio e materia interagiscono tra loro in continuazione. L’illusione dello spazio e del tempo continui intorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi».
Professor Rovelli, come possiamo accettare l’idea che il tempo non sia reale?
«Quello del tempo è un problema con cui ci si è scontrati lavorando sulle equazioni fondamentali. Dobbiamo farci i conti, ma forse è più semplice di quanto sembri a prima vista. In fondo noi viviamo in un mondo in cui c’è l’alto e il basso, ma sappiamo bene che si tratta di una distinzione locale e che non vale per tutto l’universo. Anche il tempo probabilmente è così: utile per descrivere fenomeni alla nostra scala, imprescindibile nella nostra esperienza quotidiana, ma che non vale per tutto l’universo».
Lei dice «probabilmente»: non abbiamo certezze al riguardo?
«No, ma la scienza non dà mai risposte certe, dà solo le migliori risposte del momento. Non è un male: possiamo vivere anche senza certezze assolute. Il che non vuol dire che non possiamo fidarci».
Quali sono i problemi aperti della fisica oggi?
«In fisica fondamentale, ovvero la fisica che si occupa della descrizione delle cose più elementari, ci sono vari problemi aperti, ma ce n’è uno più bello degli altri: quello della gravità quantistica. Lungo tutto il Novecento abbiamo scoperto molte cose sul mondo grazie alla meccanica quantistica e alla relatività generale. Ma le immagini dell’universo fornite da queste due teorie sono difficili da mettere insieme, non si conciliano. La gravità quantistica tenta di farlo, ma per riuscirci dobbiamo cambiare l’idea che abbiamo di spazio e di tempo.
Oggi, dunque, si cercano teorie unificanti. È come se, dopo un periodo in cui la scienza è andata sempre più verso una dimensione specialistica, si volesse tornare ai grandi sistemi filosofici. È così?
«È così. Nei primi anni del secolo scorso abbiamo fatto passi da gigante nella comprensione del mondo: era l’epoca di Einstein, di Bohr, di Fermi. Poi c’è stato il nazismo e molti fisici si sono spostati dall’Europa agli Stati Uniti. Lì la fisica è rinata, ma non era più la stessa: era una scienza imbevuta di pragmatismo americano, finanziata anche dall’esercito. Con la Seconda Guerra Mondiale, che ha coinvolto molto i fisici, il fenomeno si è acuito. Questo ha creato una generazione di scienziati il cui interesse principale era fare i calcoli e far funzionare le cose. Del resto, la meccanica quantistica permetteva di fare moltissime cose: laser, conduttori, computer. E la relatività di Einstein si poteva impiegare per spiegare molti fenomeni in astrofisica, dai buchi neri alle stelle di neutroni. Così si è andati avanti senza chiedersi se ci fosse qualcosa da cambiare. Generazioni di fisici hanno lavorato seguendo il principio: calcola e non fare domande. Ora però è passato quasi un secolo, i nodi lasciati irrisolti vengono al pettine e la fisica sta tornando a un modo di pensare più approfondito per cercare di rispondere alle domande ancora aperte. Ma forse c’è anche qualcos’altro. Un paio d’anni fa è uscito un libro intitolato Come gli hippie hanno salvato la fisica, l’autore sostiene che molti fisici teorici contemporanei fanno parte di quella generazione che pensava in termini universali e che, probabilmente, hanno conservato quel “vizio”».
È passato un secolo da quando la relatività generale ha cambiato la natura dello spazio e del tempo, ma a noi sembra ancora strano immaginare il mondo secondo la fisica di Einstein. Forse aveva ragione Kant nel dire che Spazio e Tempo sono le forme a priori entro le quali solamente è possibile la nostra esperienza?
«Kant aveva ragione su quasi tutto. In particolare, oggi sappiamo che aveva ragione nel dire che quello che vediamo è il mondo esperito da un soggetto fatto così come è fatto. Ma la nozione di spazio che Kant considera naturale in realtà è quella nata nel 1670 con i Principia di Newton: lo spazio di Dante o quello di Aristotele non sono così. Bisogna allora prendere in considerazione la storia. La relatività ha cento anni, ma le sue basi sperimentali sono di oggi: quando andavo a scuola già mi insegnavano che, secondo la teoria di Einstein, un orologio su un tavolo corre più velocemente di uno a terra, ma solo recentemente sono stati creati orologi così precisi da provarlo. Cento anni sono pochi: in fondo Copernico è vissuto nel Cinquecento, ma nel Seicento solo alcuni visionari come Galilei pensavano di prendere sul serio le sue teorie».
Lei fa spesso riferimento all’arte e alla filosofia. Crede che ci sia un collegamento intimo tra i campi del sapere?
«L’idea delle due culture è una sciocchezza contemporanea. Letteratura, scienze, arte, filosofia sono gli strumenti concettuali migliori che la nostra cultura ha prodotto e approfondiscono la comprensione del mondo. La spaccatura è disastrosa perché crea due gruppi di persone più ignoranti e più stupide».
Nel suo libro si nominano molti giovani ricercatori Italiani e ogni volta si puntualizza che lavorano all’estero. Sbaglio o c’è una nota polemica?
«Non sbaglia. Non è un male che gli italiani vadano in giro per il mondo, ma perché il confine viene attraversato in una sola direzione? Le persone più brave vanno dappertutto meno che in Italia e i nostri migliori emigrano, come accade in Africa. Ci stiamo autotrasformando in un deserto culturale».