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 2014  febbraio 09 Domenica calendario

MOURINHO, IL REAZIONARIO DI PROFESSIONE

Mettetevi comodi. Sta per andare in onda lo scontro di civiltà calcistiche. L’Inghilterra è di nuovo innamorata dello Special One dopo la vittoria che il suo Chelsea ha ottenuto contro il Manchester City lunedì, raggiungendolo al secondo posto in classifica e attestandosi a soli due punti dalla capolista, l’Arsenal. I giornali inglesi sono impazziti per l’impresa, costruita con la perizia di uno scienziato, formula dopo formula.
La BBC ha parlato di un «trionfo tattico». Gary Neville, ex calciatore del Manchester United, ha detto che «Mourinho è il migliore al mondo nella gestione dei big match». Sam Wallace, dell’Independent, ha aggiunto un tassello: la cura maniacale per i «piccoli dettagli».
Se fosse tutto qui, non ci sarebbe nulla di straordinario. Invece i tre punti conquistati raccontano solo una parte della storia, quella meno importante e volatile. Ciò che rimane, lasciati gli spalti, è la concezione del calcio che è scesa in campo: l’unica in grado di competere – per forza, risultati, presa nell’immaginario – con quella a cui si oppone: il tiqui taca targato Barcellona e ora esportato anche al Bayern Monaco da Pep Guardiola.
Sul Guardian Jonathan Wilson ha scritto che «in un mondo in cui il possesso palla e l’iniziativa sono dominanti, la differenza di Mourinho dovrebbe essere celebrata».
Ecco il punto. Il calcio dell’allenatore di Setúbal è spiazzante, non liscia il pelo allo spirito del tempo, si oppone alla regola prima che si è imposta nelle élite del pallone: quella di far circolare palla, avere sempre in mano la situazione, costruire una ragnatela di passaggi, vergognandosi della pulsione a difendersi, perché – rilanciano – «la migliore difesa è l’attacco».
Mourinho gioca esattamente al contrario. Le sue squadre preferiscono aspettare l’avversario, presidiare il centro del campo davanti alla porta, il luogo da cui arrivano la maggior parte dei colpi letali e reagire alle azioni avversarie con la velocità, il cinismo di una ripartenza, la spietata determinazione di una rapina a metà campo, nel bel mezzo della costruzione architettonica altrui.
Ovvio: è una bestemmia, questa, nel mondo calcistico contemporaneo, dove il Dio è il gioco barocco, l’intrattenimento, del pubblico e della palla. Mourinho no: rifiuta di avere il pallone tra i piedi dei suoi calciatori se non per il minimo indispensabile a buttarla dentro. Per il resto la lascia volentieri agli avversari.
Dopo la semifinale che disputò contro il Barcellona, quando sedeva sulla panchina dell’Inter (non la partita che ha definito «la più bella degli ultimi 50 anni», l’altra, quella del ritorno), lo disse chiaramente: «Io non voglio la palla, la partita deve finire con un possesso palla del 95 per cento a loro favore»
Questa battaglia di visioni del mondo calcistico, Mourinho non è riuscito a combatterla con successo dall’avamposto del Real Madrid, quello più prossimo al nemico blaugrana. E ci sono tanti motivi per cui ciò è successo che non è il caso ora, qui, di entrare nei dettagli.
In questa sede importa rilevare che Mou riesce a ottenere il massimo dell’efficacia lanciando assalti dalla periferia. È come un barbaro che attacca l’impero, lo Special One (intendendo per impero la sovrastruttura ideologica che il calcio del Barça ha imposto). Ha trionfato con il Porto, una squadra europea minore, con l’Inter, la più marginale delle grandi italiane, e ora eccolo di nuovo sulla panchina del Chelsea, non la più grande delle squadre inglesi, per storia e tradizione, ma un team che, a detta di Mourinho, «il prossimo anno può essere competitiva»
La posizione da cui Mourinho combatte – quella dell’opposizione agli ultimi ritrovati della tecnica calcistica, il mister della reazione al gioco avversario – lo rendono agli occhi dei pigri osservatori una specie di passatista, un allenatore che si oppone al progresso, alle magnifiche sorti e progressive del pallone. Un catenacciaro, diciamo noi italiani. Uno che parcheggia l’autobus davanti alla porta, osservano gli inglesi. Un conservatore, stabiliscono i manuali di dottrine politiche.
Tutto sbagliato.
Nel suo Contro il tiqui tacca (Monadadori) Michele Dalai demolisce il calcio del Barcellona rivendicando l’emozione dell’antico contropiede a dispetto della noia che producono Messi e compagni. Mourinho però non è una forza del passato: i suoi riferimenti non affondano in un ieri mitico, ma sono gli stessi dai quali si è sviluppato il gioco che egli tanto osteggia. E cioè: il calcio totale.
Tutto viene da lì: anche Mourinho. Arrigo Sacchi, cioè l’avanguardia del calcio italiano, ha scritto nella prefazione del libro di Sandro Modeo, L’alieno Mourinho (Isbn Edizioni): «Egli genera invidie in chi non la pensa come lui e, in generale, nei convenzionalisti e nei mediocri». Va de sé che accusare un allenatore di fare il catenaccio è il massimo insulto per l’avvenirista Sacchi, ed egli non rivolgerebbe mai tale ingiuria a Mourinho: «I ragli dei mediocri – commenta – non vanno in paradiso, mentre il Nostro è sicuramente nel paradiso del football».
Nelle squadre di Mou, come in tutte le altre grandi del calcio contemporaneo, non esiste difesa, centrocampo e attacco. Ma esistono solo fase difensiva e fase offensiva. La differenza è che il calcio dello Special One si adatta al gioco dell’avversario, reagisce alla sua intraprendenza, s’insinua nelle sue crepe, per sorprenderlo e trafiggerlo. Funziona così, dalla punta sino all’ultimo difensore. Mou non conosce l’ottimismo della volontà, ma solo il pessimismo della ragione tattica.
È come una mossa di karatè, la filosofia di Mou: sfrutta la forza dell’avversario e gliela rivolta contro. I cantori del calcio alla moda dicono: «Attacca, tieni lontano il tuo avversario dalla tua porta mantenendo il possesso palla, segna molti gol». Mourinho risponde: «Mantieni il controllo della gara, lascia l’iniziatica, perché non c’è niente di più semplice ed efficace nel calcio che vincere uno a zero».
Se dunque gli ideologi del barcellonismo vengono definiti dal mainstream dei rivoluzionari, lo Special One può essere dichiarato a rigore un reazionario. Non nell’accezione negativa che questo termine ha in politica (come volontà di riportare la storia un tempo passato) ma in quella strettamente tecnica di reagire sistematicamente, scrupolosamente, metodicamente, all’impostazione offensiva dell’avversario.
Wilson scrive: «C’è un consenso oggi tra le élite del calcio che favorisce il pressing e il possesso, ma c’è un filone di pensiero alternativo: quello che non si spende nella parte alta del campo ma preferisce aspettare e sventare gli attacchi, cercando di giocare in reazione, e in questo Mourinho rimane un maestro».
Ecco qual è il match che si disputerà nel futuro del calcio contemporaneo (benché, in realtà, esso sia un eterno ritorno…). Una sfida che Mou – forte di essere in procinto di tornare ai massimi livelli – lancerà ai suoi avversari. Uno scontro di civiltà calcistiche, appunto.
Che vinca il migliore.