Umberto De Giovannangeli, l’Unità 9/2/2014, 9 febbraio 2014
IL FUTURO DEL QUOTIDIANO È UN BAR?
Questa non è una storia «francese», anche se riguarda una delle testate più importanti tra i quotidiani transalpini: Libération. Questa è una storia «globale», che potrebbe essere tradotta in italiano, spagnolo, inglese... È la storia di una comunità di giornalisti che rivendica la propria dignità professionale. È una storia politica, culturale, che non può essere riducibile ad una mera «questione sindacale». È la rivendicazione, con rabbia e orgoglio, di un impegno e di una passione che non intendono venir meno. Senza nostalgie per un passato che non c’è più ma senza neanche piegarsi acriticamente ad una «modernità» senza aggettivi, senza anima, che fa dello strumento il contenuto e il «contenuto» una sorta di didascalia per una operazione commerciale. Quella che pubblichiamo in foto è la prima pagina con cui Libé era ieri in edicola, il giorno dopo lo sciopero indetto dalla redazione. L’89% dei dipendenti ha chiesto il 26 novembre scorso le «dimissioni del presidente del Consiglio di sorveglianza Nicolas Demorand e del copresidente Philippe Nicolas, ma oggi entrambi sono ancora al loro posto». Nel comunicato si ricorda che i dipendenti «sono pronti a consentire degli sforzi se i loro azionisti si impegnano ad accompagnare il giornale in questa fase difficile». I dipendenti chiedono «un piano di sviluppo per Libération, con coraggio, audacia, vere scelte, dirigenti, dipendenti e azionisti all’altezza», quindi investimenti «se si crede al futuro del giornale. Noi ci crediamo», conclude il comunicato. E invece in un testo messo on line venerdì sera gli azionisti della testata hanno annunciato il loro progetto, la «sola soluzione praticabile». «Se i dipendenti rifiutano, Libération non avrà avvenire». L’avvenire invece è trasformare i 4500 metri quadrati della redazione a Parigi in uno «spazio culturale e per le conferenze, con una piattaforma televisiva, uno studio radio, una newsroom digitale, un ristorante, un bar, un incubatore di start-up». Non è chiaro quale ruolo sarà riservato alla redazione in questo spazio «aperto e accessibile a tutti, giornalisti, artisti, scrittori, filosofi, politici, designer», «crocevia di tutte le tendenze politiche, economiche o culturali», puntando sulla «potenza del marchio Libération».
«Nous sommes un journal». «Noi siamo un giornale», è stata la risposta sulla prima pagina di Libération. Sembra una constatazione logica, ma non è così. Perché continuare ad essere un giornale è oggi una sfida. Una battaglia di civiltà. Un giornale, e non un marchio, i frequentatori del marketing direbbero un «brand», che dovrebbe veicolare qualcosa che con il giornalismo non ha nulla a che fare. A chiarirlo sono gli stessi redattori di Libé. In una prima pagina che va conservata e trasformata in una bandiera da chiunque ha ancora a cuore la libertà di informazione. «Siamo un giornale», «non un ristorante, né un social network, né uno spazio culturale, né una tv, né un bar, né un’impresa incubatrice di start up…». Uno spazio, fisico e virtuale, da appaltare. È una prima pagina forte, struggente. Dolorosamente vera.
La squadra di Libération imputa ai vertici dell’azienda (tra i quali s’è messa in risalto nelle ultime settimane la figura di François Moulias, azionista di minoranza e uomo di Bruno Ledoux, uno dei due principali azionisti del giornale con Edouard de Rothschild) soprattutto il non voler rischiare nulla nel futuro della testata, «non un centesimo in più» in progettualità, solo ipotesi volte al ridimensionamento del lavoro dei giornalisti. Oltre al totale disinteresse verso il mondo delle notizie, l’altro capo d’accusa è la mancanza di dialogo, anzi la quasi volontà di imporre il nuovo corso con la forza (la redazione ha denunciato minacce di licenziamenti ai giornalisti che non avessero accettato il taglio di stipendio).
LICENZIATI VIA EMAIL
Orgoglio e rabbia. Abbinati a forme di protesta di straordinario impatto emotivo. Aprire la posta elettronica e scoprire di essere stati licenziati. È successo non molto tempo a 129 giornalisti de El Pais, il quotidiano più diffuso in Spagna. Contro i tagli imposti, brutalmente, dalla proprietà i giornalisti del Pais hanno adottato forme di protesta e di comunicazione innovative: un video che mostra i redattori in silenzio, cinque minuti di silenzio, tenendo sollevato il giornale. E un altro video in cui si contava fino a 129: il numero dei giornalisti, tante firme storiche del quotidiano, cacciate vie, come una merce scaduta. «El Pais sta morendo per colpa dei brogli del suo presidente, che ha blindato il suo stipendio da14 milioni all’anno», avevano scritto su Twitter. «Tutti gli stipendi dei giornalisti licenziati messi insieme non fanno quello milionario del presidente». E anche questa non è solo una «storia spagnola».