Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore 9/2/2014, 9 febbraio 2014
DALL’INIZIO DELLA CRISI RICAVI GIÙ DI 137 MILIARDI
Preoccupati. Terrorizzati. Le parole scelte dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, restituiscono il senso letterale di una recessione che sta destrutturando il vocabolario dell’economia reale e che sta modificando, storpiandola, la grammatica dell’impresa.
Il nostro paesaggio industriale è caratterizzato da un profilo sempre più deteriorato. Nel 2013 i fallimenti hanno superato i 14.200, il 14% in più dell’anno prima. In media, ogni giorno sono finite in default formale quaranta imprese. Euler Hermes, società di assicurazione del credito di Allianz che monitora una quarantina di Paesi, ha calcolato in un +10% le insolvenze espresse nel 2013 dal sistema industriale italiano: un incremento pari a quello registrato dalla Grecia, non proprio un benchmark positivo. C’è, poi, chi decide di chiudere volontariamente attività in bonis: secondo l’analisi del Cerved Group, nei primi nove mesi del 2013 oltre 50mila imprese - in queste condizioni - hanno chiuso per sempre i cancelli: il 5,2% in più in confronto al 2012.
I numeri dei fallimenti e delle liquidazioni volontarie compongono l’asettica equazione di una crisi iniziata nel 2008 ed acutizzata negli ultimi mesi. Una equazione dietro cui ci sono i drammi personali, le fatiche quotidiane, le tensioni private di imprenditori e dirigenti, impiegati e operai. Comunità che, un giorno, si ritrovano chi senza ufficio e chi senza linea produttiva, chi senza salario e chi senza dividendi. Uomini e donne uniti da anni in un confronto duro con il mercato che, a un certo punto, si trasforma nel dolore della perdita del lavoro. C’è tutto questo nei centomila fra capannoni industriali e laboratori artigianali, terreni di pertinenza e magazzini che sono oggi in vendita nel nostro Paese. Oltre un terzo è all’asta giudiziaria, per procedure fallimentari o per escussioni fatte dalle banche.
Non c’è, però, soltanto la sfumatura pre-cimiteriale di un tessuto produttivo che, nei suoi snodi più fragili, si è sfilacciato o addirittura è andato in necrosi. C’è anche l’allentamento complessivo di un ordito industriale in cui si sta riducendo la portata di un nodo essenziale (il credito bancario) e in cui manca il filo rosso (la politica industriale) che invece è presente in molti altri Paesi nostri competitor, in particolare in Francia e in Germania.
La litania del credit crunch non è querula lamentazione. Ogni mese - ogni trimestre - essa si aggiorna. Ma, per lasciare da parte il day by day del rapporto fra banca e impresa, basta considerare un mese simbolico. Il fallimento di Lehman Brothers avviene il 15 settembre 2008? Prendiamo, dunque, quel mese di settembre, come inizio fatidico di una crisi finanziaria che, poi, si sarebbe propagata alla manifattura internazionale. Allora le imprese italiane avevano ottenuto dalle banche nuovi prestiti per 62 miliardi di euro. Cinque anni dopo, nel settembre del 2013, questa cifra si è ridotta a 30 miliardi di euro (si veda Il Sole 24 Ore del 3 dicembre 2013).
Allo stesso modo non vi è nessuna forma di piagnonismo nel constatare la totale assenza di misure di politica economica strutturali a favore delle imprese. Non le vogliamo chiamare misure di politica industriale? Preferiamo chiamarle policy, così magari i cultori del mainstream si sentono più sereni? Le si definisca come si vuole, ma di certo oggi la loro assenza pesa non poco nell’asimmetria fra l’Italia e i Paesi a noi più prossimi, come appunto la Francia e la Germania. Ancora la scorsa settimana una nota del Centro Studi Confindustria evidenziava la loro latitanza italiana e la loro diffusione, invece, in Paesi fino a pochi anni fa votati alla religione del terziario avanzato e dell’immaterialità più pura e astratta, magari di stampo prettamente finanziario: «Negli Stati Uniti il piano di rilancio dell’economia dell’Amministrazione Obama è incentrato sulla creazione di una rete nazionale per l’innovazione manifatturiera. In Germania, dove da anni sono attivi enti pubblici che facilitano la diffusione e commercializzazione delle innovazioni, è stata da poco finanziata la nascita di 15 distretti tecnologici. In Francia il nuovo piano di rilancio del manifatturiero prevede 24 piani industriali e si avvale del ruolo strategico affidato alla Banca Pubblica degli Investimenti. Perfino la Gran Bretagna, da sempre orientata verso il settore terziario, ha lanciato la strategia per la manifattura avanzata, che vede le istituzioni pubbliche attive nel supporto tecnico e finanziario alle imprese. In Italia, invece, la politica industriale è tuttora assente».
C’è anche questa asimmetria - fra noi e perlomeno il resto dell’Europa continentale - nelle diverse performance dei sistemi industriali: secondo una stima del Ceris Cnr, effettuata su dati Eurostat, posto a 100 il fatturato nazionale del 2010, due anni prima l’Italia era a 119, la Germania a 118 e la Francia a 108; ora la Francia e la Germania, che hanno dedicato risorse ma soprattutto energie strategiche alla definizione di frame politico-amministrativi in grado di favorire la tenuta delle imprese nella crisi, sono tornate a quota 110, mentre noi rimaniamo a quota 90.
Questo dato risulta ancora più inquietante, visto che ormai fra gli imprenditori sta prendendo piede la consapevolezza che il peso negativo di un mercato interno asfittico rischia di compensare, malamente, i buoni risultati ottenuti sui mercati internazionali dalle nostre imprese export-oriented.
Proprio la perdita di questo equilibrio instabile, con la dinamica interna così brutta da inibire nel complesso i successi all’estero, è all’origine della perdita di ricavi accusata dal sistema industriale italiano dal 2009, primo anno effettivo di crisi. Negli ultimi cinque esercizi, secondo le stime di Prometeia e di Intesa Sanpaolo, le imprese italiane hanno lasciato sul terreno qualcosa come 137 miliardi di ricavi aggregati.
Basta per essere preoccupati?
p.bricco@ilsole24ore.com