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 2014  febbraio 09 Domenica calendario

SI SCRIVE PER COMPETERE


Uno dei grandi misteri della vita di uno scrittore è la trasformazione che avviene nel passaggio da romanziere inedito a edito. Se cercate un caso da manuale, guardate la carriera di Salman Rushdie. Eccolo in un’intervista del 2005: «Molti in quella generazione si erano già fatti strada come scrittori. Mi sorpassavano sfrecciando. Ian McEwan, Julian Barnes, Kazuo Ishiguro, Bruce Chatwin. Era un momento straordinario per la letteratura inglese, e io ero quello che restava sulla linea di partenza».
È una gara. Procuratevi una copia del memoir di Rushdie, Joseph Anton (pseudonimo che allinea Rushdie con Joseph Conrad e Anton Cvechov) e troverete che ogni rapporto, con compagni di scuola, ragazze e mogli, altri scrittori e infine anche con l’Ayatollah Khomeini che lo condannò a morte, è visto in termini di vincere e perdere. Al cuore di queste lotte, almeno inizialmente, c’è «il non riuscire a pubblicare con successo». È questa la gara delle gare. La pubblicazione. Alla fine, Rushdie decide che questo fallimento è legato a un problema identitario e «lentamente, dalla sua posizione ignominiosa sul fondo del barile letterario, iniziò a capire... ».
Parte per l’India per rafforzare il lato indiano della sua identità, convinto che questo l’aiuterà a diventare uno scrittore di successo; poi elabora «un progetto gigantesco, di quelli che o la va o la spacca» in cui «il fallimento era molto più probabile del successo». Dopo la pubblicazione di I figli della mezzanotte, «accaddero molte cose che non aveva neanche mai osato sognare, i premi, l’ingresso nella lista dei bestseller e, in generale, la popolarità». Della notte in cui gli fu tributato il prestigioso premio Booker, Rushdie ricorda sopratutto il suo piacere nell’aprire la «bella copia omaggio rilegata in pelle, con l’ex libris all’interno che diceva VINCITORE».
È questo il filo conduttore. Leggendo i romanzi di Rushdie si scopre che i protagonisti, come il loro creatore, sono tutti intrappolati in lotte in cui si vince e si perde. Allo stesso tempo, la lingua sempre crepitante di Rushdie, piena di giochi di parole e di erudizione, stabilisce subito una gerarchia in cui a dominare è lo scrittore, mentre il lettore è ridotto a una supina ammirazione oppure, in caso contrario, è infastidito. Queste sono le uniche due risposte possibili. Più volte in Joseph Anton Rushdie si dice sorpreso di avere tanti nemici. Forse perché rende chiarissimo quanto è importante per lui essere e apparire vincente.
Su questo, ahimè, ha ragione. Nessuno è trattato con più sufficienza dell’autore inedito. Ricordo ancora una conversazione al capezzale di mio padre morente, in cui il medico gli chiese che cosa facessero i suoi tre figli. Quando arrivò al giovane Timothy e disse che stava scrivendo un romanzo e voleva diventare uno scrittore, la dottoressa, ignara del fatto che io stessi entrando nella camera, disse di non preoccuparsi, avrei presto cambiato idea. Anni dopo, la stessa donna mi strinse la mano piena di rispetto, congratulandosi per la mia carriera. Non aveva letto i miei libri.
Perché abbiamo questa riverenza acritica verso gli scrittori editi? E, questione ancora più interessante, quale effetto produce sull’autore e sulla sua opera il passaggio dalla derisione alla riverenza?
Ogni anno insegno scrittura creativa a qualche studente inglese che viene in Italia per un programma di scambio internazionale. L’urgente necessità, per come la vedono loro, di pubblicare appena possibile, colora tutto quello che scrivono. Spesso lasciano cadere progetti interessanti perché si sentono obbligati a scrivere qualcosa di più "pubblicabile". Disperatamente ambiziosi, si pongono delle scadenze, poi si sentono dei falliti quando non le rispettano.
Ma conosciamo tutti le pene degli aspiranti. Si parla meno invece del fatto che la stessa mentalità alimenta ancora il mondo della narrativa dall’altra parte della barricata. Perché arriva il giorno, forse, in cui l’aspirante viene pubblicato. Arriva la famosa telefonata. Un attimo e tutto è cambiato. Improvvisamente tutti ti ascoltano con attenzione, ti invitano sul palco ai festival letterari, vogliono che tu parli con saggezza e solennità del tuo prossimo romanzo o che pontifichi sul futuro del romanzo in generale, o persino sul futuro della civiltà.
Ai neofiti tutto questo non dispiacerà. Mi ha sempre stupito la rapidità e la spietatezza con cui i giovani romanzieri tagliano i ponti con la comunità di aspiranti frustrati. Dopo anni di paventato oblio, il romanziere edito ora sente che il successo era inevitabile, ha sempre saputo di essere uno degli eletti. Nel giro di qualche settimana, sul suo sito web appaiono messaggi che scoraggiano gli aspiranti dall’inviargli i loro manoscritti. Ora vive in un’altra dimensione. Il tempo è prezioso. Serve un altro libro. Certo della propria vocazione, si mette all’opera. In men che non si dica, diventerà esattamente quello che il pubblico gli chiede di diventare: una persona a parte, che produce quella cosa speciale che è la letteratura; un artista.
Il che cambia tutto. Il matrimonio, per esempio. Una moglie inedita è una cosa, una edita un’altra. Il rapporto con i figli ne è condizionato. Ci si ritrova un nuovo circolo di amici. Eppure, se nel tempo l’autore esplora e si adatta alla posizione che la società così generosamente gli riconosce, c’è una cosa che non deve mai fare. Non deve ammettere, o, se lo fa, solo ironicamente, a mo’ di battuta, la feroce ambizione che governa la sua scrittura, e con questa la presunzione di un’insuperabile gerarchia tra scrittore e lettore, tale che il primo è infinitamente più importante, e anzi in qualche modo più reale del secondo.
Cerchiamo di inquadrare meglio la faccenda. Quanti criteri ci sono per giudicare una persona? Non molti. Brutalmente, possiamo ritenerla buona o cattiva, coraggiosa o codarda, appartenente al nostro gruppo di pari o meno, talentuosa o priva di talento, vincente o perdente. Naturalmente, ciascuno di questi criteri ha le sue sfumature e sottocategorie, ma di base la situazione è questa. Allora, se mi si chiedesse qual è il criterio dominante oggi, direi quest’ultimo. Ciò che conta è vincere, è il volume delle vendite, la celebrità, world domination, come dicono gli americani. Ma non bisogna mai ammettere che il valore principale è questo. Anzi, proprio per vincere occorre professare altre virtù e parlare d’altro. In Joseph Anton Rushdie sbandiera il vessillo della libertà di parola – vi sembra giusto, si chiede a un certo punto, che la Thatcher sia libera di organizzare la presentazione del suo libro e io, per via dei costi della sicurezza, no? Non è detto che questa sia ipocrisia. Può stare a cuore questo o quel problema o forma d’arte, ma sotto sotto quello che più conta è vincere.
La domanda rimane: perché la gente ha una tale considerazione per gli autori, anche quando non li legge? Perché accorre in massa ai festival letterari, mentre le vendite di libri crollano? Forse è perché la riverenza e l’ammirazione sono emozioni che ci attraggono; amiamo provarle, se troviamo qualcuno che davvero le meriti. Politici e militari non sono più adatti. Gli sportivi non hanno la giusta gravitas. In questo senso è un sollievo trovare un eroe letterario, qualcuno che sia talentuoso quanto nobile, e che non sembri primariamente interessato ad avere più successo di noi. Alice Munro, con le sue infinite cronache tristi di gente che non è riuscita a raggiungere i propri obiettivi, ha colto nel segno. Esplorando il senso di fallimento provato da tanti in un mondo sempre più competitivo, ha vinto il premio più ambito in assoluto, il Nobel.