Flavia Foradini, Il Sole 24 Ore 9/2/2014, 9 febbraio 2014
LA MINIERA DEI TESORI DI HITLER
Da tempo ormai studiosi, ricercatori e giornalisti lavorano per illuminare il tema della gigantesca operazione economica, fatta di espropri, sequestri, confische, transazioni al ribasso, che accompagnò l’Olocausto.
Una preziosa messe di pubblicazioni, l’apertura di molte sezioni degli archivi americani e l’ausilio di Internet e delle banche dati, hanno illuminato i meccanismi e gli atti di quella parte della storia del nazismo. Beni mobili e immobili, polizze assicurative, conti correnti: ogni uccisione o privazione di libertà durante il Terzo Reich, vide contestualmente una capillare appropriazione di tutto ciò che milioni di cittadini avevano raccolto nella vita precedente al fatale incontro con le camicie brune.
Uno dei comparti più lucrativi e ambìti di quell’operazione riguardò le opere d’arte. Un capitolo che continua a proiettare pesanti ombre e manifesta effetti clamorosi ancor oggi. Basti pensare il recente caso della collezione rinvenuta nella casa di Cornelius Gurlitt a Monaco di Baviera: suo padre Hildebrand fu uno dei tanti mercanti che offrirono i propri servigi ai nazisti. Ma nel cerchio magico di favolosi affari vi erano anche galleristi, direttori di musei e case d’asta rinomate, perché la macchina delle razzie di opere d’arte era complessa e necessitava di un circolo efficiente, competente e spregiudicato. Le alte sfere nazionalsocialiste collezionavano assiduamente per passione o semplicemente per emulazione: oltre all’architettura, Adolf Hitler amava l’arte, cosicché sia nei confini del Terzo Reich, sia poi in tutti i territori occupati, suoi emissari selezionavano appositamente per lui i bottini migliori. Ciò che non veniva accaparrato per il Führer con espropriazioni o acquisizioni a prezzi infimi, diventava merce per i gerarchi.
L’intento del dittatore era di esporre quei capolavori di ogni secolo nel più importante museo di Belle Arti al mondo, il Führermuseum, da erigere a Linz dopo la vittoria finale. La città sulle rive del Danubio, a metà strada tra Vienna e Salisburgo – dove Hitler aveva frequentato la Realschule dal 1900 fino al 1904 – era destinata a diventare la metropoli culturale del Reich. Per realizzare il progetto, il tiranno aveva firmato già nel giugno del 1938 il "Führervorbehalt", il decreto di precedenza assoluta sulla scelta delle opere confiscate in Austria dopo l’occupazione del Paese nel marzo del 1938. Avendo vissuto nella capitale austroungarica dal 1908 a poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, Hitler sapeva bene delle superlative collezioni d’arte che ornavano i palazzi del centro città, in particolare quelli dell’alta borghesia ebraica.
Grazie anche alle transazioni di Hildebrand Gurlitt, con il "Sonderauftrag Linz" (l’incarico speciale per la creazione del museo di Linz), vennero accatastate in vari depositi migliaia di opere. Ma col precipitare degli eventi, nell’ultimo scorcio della guerra si cercarono rifugi a prova di bombe. Soprattutto a partire dal 1944, mentre treni carichi di deportati attraversavano lenti l’Europa, convogli privilegiati, stipati di opere d’arte, sfrecciavano frenetici e superprotetti alla volta di luoghi segreti: Merkers, Heilbronn, Neuschwanstein in Germania, e soprattutto l’antichissima miniera di salgemma di Altaussee, nei monti alle spalle di Salisburgo e Linz.
Fu propri lì che nel maggio del 1945 vennero ritrovate oltre 6500 opere, di cui 4700 destinate al Führermuseum. Il Gauleiter della zona, August Eigruber, aveva infatti impartito l’ordine di far saltare la miniera, ma complice la concitazione di quei giorni di crepuscolo di un’epoca, non era stato eseguito. Se ormai da decenni vari personaggi e in primis il fioco movimento di resistenza austriaca, cercano di attribuirsi il merito di aver sventato quella devastante azione, certo è che le casse con otto bombe da 500 kg, camuffate dalla scritta «Attenzione. Marmo! Maneggiare con cautela», portate all’imbocco delle 137 gallerie per distruggere l’incommensurabile patrimonio, non vennero innescate.
Le opere di Altaussee, e quelle provenienti da altri 1500 depositi in ville di campagna, conventi e castelli, vennero portate alla centrale istituita dagli Alleati a Monaco e da qui iniziò una complessa procedura di individuazione dei proprietari e di restituzione. Ma 5 milioni di manufatti artistici sono tanti. Decine di migliaia di essi restarono senza padrone. Molti altri, razziati una seconda volta nei vuoti legali del dopoguerra, scomparvero e riapparvero poi in musei, gallerie, case d’asta, collezioni private. E cominciarono le cause di restituzione. Sempre più agguerrite, sempre più milionarie. Fino ad oggi.