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 2014  febbraio 09 Domenica calendario

L’UOMO È RETTO, LA DONNA OBLIQUA. DAVVERO?


In un passo degli Analitici primi Aristotele sostiene che sia possibile «giudicare la natura di un oggetto sulla base della sua struttura corporea». Pur non essendo più ampiamente argomentata, l’affermazione aristotelica è considerata tuttora come l’assunto fondamentale sul quale si basa quella particolare disciplina chiamata fisiognomica. Muovendo da un’etimologia alternativa, rispetto a quella prevalente, Giovan Battista Della Porta sostiene nel Cinquecento che la fisiognomica è quella scienza che non si limita ad acquisire una gnome , vale a dire una «conoscenza», della natura (physis ), perché essa consente piuttosto di stabilire un vero e proprio nomos , una «legge» capace di definire precise regole di equivalenza, tali per cui, ad esempio, le labbra carnose implicano sensualità, o un naso adunco è segno inconfondibile di rapacità.

Connessa a questa interpretazione del rapporto fra «esterno» e «interno», fra «corpo» e «carattere», già in Della Porta (e prima ancora in Aristotele) troviamo la prefigurazione di una concezione topologica, secondo la quale le parti del corpo seguono l’ordine della natura, nel senso che la parte superiore del corpo è orientata verso la parte superiore dell’universo. Il corpo viene sottoposto a giudizio: alcune parti vengono giudicate migliori di altre. Attraverso un’analisi di tipo simbolico, ciò che sta in alto sarebbe più nobile di ciò che sta in basso. La descrizione dei «luoghi» viene così a coincidere con un sistema di valori: fra alto e basso, è migliore e più nobile ciò che si trova in alto; fra davanti e dietro, ciò che si colloca davanti; fra destra e sinistra, migliore è ciò che è a destra. In particolare, per quanto riguarda questa sorta di originaria inferiorità della sinistra rispetto alla destra, è da notare che essa è attestata anche in numerosi scritti vetero- e neotestamentari, là dove i «buoni», gli «eletti», i «saggi» si trovano a destra, mentre è la sinistra il «luogo» destinato ad accogliere i «reprobi» e i «fuori di senno» (valga per tutte il motto del Qohelet : «Il savio ha il cuore alla sua destra, lo stolto alla sua sinistra»). In questa prospettiva, si potrebbe rileggere l’intera storia della sinistra politica come un tentativo di emancipazione dal male, dal peccato, dal cattivo destino, in una parola come liberazione da quella negatività che sembra essere «scritta» già nel suo nome, e per converso come tensione all’affermazione della propria «bontà» e intrinseca virtù.
In modi diversi, la fisiognomica che correla corpo e carattere, e la topologia che riconosce differenze di valore a porzioni di spazio, e che dunque trasforma la quantità in qualità, condividono un presupposto di fondo, in forza del quale le forme determinate di «occupazione» dello spazio configurano veri e propri paradigmi, descrivibili in termini analitici. Così, la fisiognomica insegna che per comprendere ciò che ciascun individuo è in sé, nella sua essenza più recondita e nel suo carattere inconscio, non bisogna considerare esclusivamente gli aspetti razionali e intenzionali, bensì anzitutto l’espressività del suo corpo — la «fisionomia», appunto — in cui l’anima si traduce in un’espressione oggettiva.
In questo contesto concettuale più generale, si può capire allora per quali ragioni profonde due «atteggiamenti» differenti sul piano della postura — quello della «rettitudine» e quello dell’«inclinazione» — assumano una valenza morale e ontologica. Nel primo caso, anche tenendo conto di alcune peculiarità linguistiche (in inglese, ad esempio, right vuol dire insieme «destro», «retto» e «giusto»; come del resto in italiano, visto che la «rettitudine», oltre a indicare la forma di una linea, coincide con una qualificazione morale), l’«uomo retto» è un soggetto che si attiene alla verticalità dell’asse rettilineo che funge da principio e da norma della sua postura etica. Mentre con l’immagine di una linea obliqua, di una figura «inclinata», sporta verso l’esterno, siamo in presenza di un paradigma alternativo rispetto alla «rettitudine».
Nel suo bel saggio Inclinazioni (Raffaello Cortina), Adriana Cavarero dimostra con grande efficacia, sostenuta da una scrittura limpida e insieme sempre sapida e suggestiva, che i due paradigmi posturali ora accennati afferiscono «a due diversi modelli di soggettività», corrispondono a «due teatri per interrogarsi sulla condizione umana in termini di autonomia o dipendenza». Di più: essi alludono a due stili di pensiero, e perfino a due linguaggi, differenti, «l’uno riconducibile all’ontologia individualista, l’altro invece ad un’ontologia relazionale».
A ciò si aggiunga (e non si tratta di una precisazione di poco conto, vista l’autorevolezza dell’autrice come esponente del pensiero della differenza sessuale) che il primo modello è prevalentemente maschile, tanto quanto il secondo trova in alcune icone femminili, principalmente in quelle legate alla maternità, la sua rappresentazione più compiuta.

Per argomentare questo assunto, Cavarero costruisce un palinsesto complesso, contaminando deliberatamente — e insieme con grande rigore — testi letterari (da Elias Canetti a Virginia Woolf), opere di arte figurativa (di Leonardo e Gentileschi) e scritti più propriamente filosofici, da Platone a Arendt, da Hobbes a Lévinas. Ne scaturisce un percorso denso e affascinante, nel quale il lettore si imbatte in passaggi inattesi, comunque giocati sull’alternativa fra i due paradigmi posturali. Fino all’esito conclusivo: un serrato «confronto» con Lévinas, al quale Jacques Derrida, nell’elogio funebre, aveva espresso la sua riconoscenza, per avergli insegnato un significato nuovo del termine «rettitudine».
Fra le molte «inclinazioni» analizzate nel testo, una posizione di rilievo occupa quella che, secondo una lunga tradizione, è attribuita alla donna, vale a dire la lascivia. Cavarero affronta il tema, facendo riferimento soprattutto ad alcuni brani di Schopenhauer e Proudhon, in modi diversi concordi nell’istituire un corto circuito fra l’inclinazione erotica e l’inclinazione alla maternità. Ad ulteriore conferma della persistenza di un pregiudizio misogino, rivolto a indicare nella donna una schiava delle pulsioni sessuali, si potrebbe ricordare che nella cultura greca arcaica e poi in quella classica, il termine machlosyne (lascivia) ricorre esclusivamente per designare comportamenti femminili. Offrendo in tal modo la base per contrapporre alla smodatezza sessuale delle donne la capacità di autocontrollo degli uomini, e facendo quindi derivare da questa «differenza» una presunta legittimazione del predominio maschile.