Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 9/2/2014, 9 febbraio 2014
IO, ATTORE E ANCHE UN PO’ PUTTANA
[Vittorio Gassman]
Se dovesse raccontare a qualcuno chi è Vittorio Gassman che cosa direbbe?
Cominciamo male. Domanda difficilissima. Intanto, un attore. Nel senso pieno. Questa qualifica ha influenzato decisamente la mia vita. Se dovessi aggiungere degli aggettivi positivi: efficiente, e forse anche bravo. Negativi: non proprio pavido, ma neppure intrepido.
In un’intervista, ha confidato: “Sono nel mestiere da tanto tempo: la mia pelle si è fatta quella del rinoceronte”. Che cos’è accaduto?
Credo alludessi a un fatto tecnico. Ci si abitua alle critiche troppo buone, e alle stroncature, all’usura dell’attenzione del pubblico. È vero che l’uomo pian piano si indurisce, diventa, ecco, un cinghiale. L’età dà grandi spessori, si è un pochino più pazienti, più comprensivi, più rigorosi, e soprattutto si assaporano più cose, con una punta forte di dolore, e un po’ di paura.
Il suo libro di memorie ha avuto molto successo, suppongo che contenga quasi tutta la verità dato che lei dice a un certo punto: “Io sono nato bugiardo e ho scelto il mestiere della falsificazione programmatica”. C’è qualcosa che ha deciso di
non rivelare?
Vuotando il sacco, ho deciso di ingranare la marcia della sincerità totale, non mi pare di aver fatto ammissioni salienti. Devo aggiungere che si è svolto tutto con un ampio contingente di autoironia, cattivello qua e là, soprattutto verso me stesso, forse qui avrei potuto andare ancora un po’ più a fondo perché ci sono alcuni aspetti di me che continuano a inquietarmi abbastanza e che non ho saputo risolvere.
A che cosa pensa di dovere il suo successo?
Io riconosco anche di aver avuto una certa dose di fortuna. Poi si possono fare delle azioni che facilitano l’avvento del successo, già lì comincia un po’ il merito. Io credo che come merito, di annoverare la forza di volontà, un po’ discontinua, un po’ rabbiosa. Anche i miei nemici più cari me l’hanno sempre riconosciuta, quello che in gergo sportivo si chiama la grinta. Poi la fortuna di appartenere a questa generazione, che è anche la sua, dei nati tra le due guerre, perché è stata ricca delle sollecitazioni necessarie per imboccare la strada. Io non ho mai, proprio perché non considero il mio un grande destino, sperato di scavare un lungo pozzo cento metri, ma tanti pozzi di cinque, sei, otto metri, queste occasioni è stata la nostra generazione a darmele.
Perché lei si definisce anche un po’ p u t t a n a?
Per sua natura l’attore è proprio un misto tra una puttana e un sacerdote perché il suo materiale è anche la ganga bruta dell’esistenza, però le sue radici affondano, se pur molto alla lontana, in un terreno che è di natura rituale e religiosa, ma per piacere alla gente, per il successo, si accantonano i rigori intellettuali, e il lato sacerdotale dell’interprete si confonde con quello puttanesco.
Quando ha cominciato, lei ha scritto, che non aveva pietà né di sé né degli altri. Ricorda qualche colpa?
Qualche crudeltà. Non credo di essere cattivo, ma un po’ feroce, maniaco, con sfumature di pedanteria . Il gusto matematico, simmetrico dell’esistenza, si traduce in una furia, anche verso di me. Duro con tutti, ma anch’io sto alla pari. Come direttore, come capocomico, divento anche violento. Più volte ho oltrepassato i limiti giusti. Quando recitavo il Peer Gynt di Henrik Ibsen, mollai una seggiola su una spalla di Vivi Gioi; durante una prova dell’Adelchi presi a sassate le comparse, che non si muovevano come volevo.
Perché a qualcuno lei riesce, siamo schietti, insopportabile?
La statura, in un paese di piccolotti, l’aspetto atletico, perché ho fatto molto sport, il modo di camminare diritto, che sembra tracotanza, poi il fatto che, raggiunta una certa tranquillità nella carriera, mi sono concesso il lusso di dire la verità a tutti i costi.
Come ha fatto a guadagnarsi la simpatia?
Pochina. Un’operazione dall’esterno. Il cinema, e il tentativo lo devo a Mario Monicelli, a I soliti ignoti, perché è stata la mia prima commedia e che ha interrotto una serie di film in cui facevo il cattivo, un ruolo che ho molto odiato, e mi ha dato finalmente una certa collocazione nel cinema, poi il film era molto carino e divertente. Con Monicelli prendemmo una certa faccia, di natura un po’ rigorosa, e la sbriciolammo, facendone vedere le debolezze: orecchie a sventola, fronte abbassata. Del resto, non ho mai lo stesso volto.
I Soliti ignoti, il film è del 1958, segnò un’epoca come ricorda il cinema di quegli anni.
Era un mondo in cui più facilmente si stabilivano rapporti di cordialità. C’erano meno cose, c’era più tempo di accorgersi di ciò che ti stava intorno, era anche più goliardico il modo in cui si lavorava. Poi quando si aveva la fortuna di costituire un gruppo simpatico di attori, con un regista come Monicelli era veramente una festa, una pacchia. Oggi, non solo nel cinema è tutto più automatizzato, più folto e anche più arido.
Ha qualche episodio curioso di quel periodo?
Mi ricordo una volta che ero a Roma, a Piazza del Popolo, stavamo girando una scena del film, durante la pausa andai in un ristorante dove c’era un vecchio cameriere, io avevo i vestiti di scena, ero trasandato, ci fu una specie di tragedia in tre battute silenziose: avevo visto del fagiano e lo ordinai, lui fece un cenno con la testa, gli chiesi se era finito e lui continuò con il cenno della testa, allora capii che pensava che non me lo sarei potuto permettere ma non voleva mettermi in difficoltà di fronte agli altri clienti.
Tra i tanti attori con cui lei ha lavorato c’è qualcuno che vuole ricordare?
Ne dovrei citare tanti. Biagi, lei mi chiede un nome: Marcello Mastroianni.
Il vostro fu un sodalizio cominciato tanti anni fa.
Marcello, lo ricordo sempre con grande simpatia, come ricordo tutti gli incontri che abbiamo avuto a distanza, perché non ci siamo mai frequentati assiduamente. Anche lui era tra i protagonisti dei Soliti ignoti. La prima volta che lavorammo insieme fu in teatro, diretti da Luchino Visconti. Prima nell’Oreste di Vittorio Alfieri, era il 1949, poi in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams. Eravamo molto giovani, io avevo qualche anno in più di teatro di Marcello, lui stava cominciando.
Lei lo ha molto aiutato, lui era alle prime armi.
No, Marcello non ne aveva bisogno. Quello che le sto per dire lo dico perché lo raccontava sempre lui, spiritosamente: nell’Oreste, era un po’ impicciato con i versi, era un tipo di teatro che non gli era particolarmente famigliare, e aveva un po’ paura di Visconti. Allora stavamo molto insieme a ripetere le battute. Eravamo diventati amici facilmente, forse per la assoluta diversità di carattere e di psicologie che ha permesso una certa comprensione, una certa complementarità.
Al di là delle diversità non vi accomuna una fragilità di fondo?
Anche lui ha raccontato di essere sempre stato un po’ dominato dagli eventi. Credo che esageri un po’ perché fa parte della sua eleganza. Io sono un po’ più nascosto perché ho scelto una strada in teatro, la mia faccia pubblica è sempre stata quella di un uomo forte e sicuro ma non è vero niente, sono fragile altrettanto e sono rimasto, sotto sotto, un timido che si è ribellato alla timidezza .
Lei, mi rifaccio sempre ai testi, ho diviso la sua storia in periodi: classico, o delle illusioni; americano, o della follia; televisivo, o della megalomania; popolaresco, o della spontaneità. Facciamo un esempio: qual è il più felice?
Felicità è la giovinezza. É durata fino a trent’anni. Non sapevo cosa fosse soffrire: la scomparsa di mio padre fu un trauma. Poi ho cominciato ad avvertire la presenza di nuove sensazioni, la malinconia, l’insicurezza. Ma, del resto, io la penso come il monsignore di Otto e mezzo: “Chi ti ha detto che hai diritto di essere felice?”
Fissando le varie tappe con nomi femminili, una specie di calendario sentimentale, si comincia con Nora Ricci, poi Shelley Winters, poi Annamaria Ferreo, poi Annette Stroyberg, poi Juliette Mayniel, e infine, penso, Diletta D’Andrea. Che cosa ha dato e cosa ha ricevuto da ciascuna di loro?
Molto. Non ci sono cose che non rifarei. La buona fede c’è sempre stata. Ho avuto due tipi di mogli, di compagne: con un tipo il legame era più che altro intellettuale, con l’altro era prevalentemente la grazia, l’abbandono. Un’alternativa, abbastanza evidente. Tre mi hanno dato dei figli, che è importante, e tutte intensità, gioie e scocciature. Ma abbiamo mantenuto buoni rapporti, anche con Shelley, nonostante una rottura abbastanza fragorosa. Ho il rimpianto di aver fatto durare troppo una vicenda quando era finita. Non bisogna tollerare la noia. È un grave peccato.
A che cosa attribuisce questa notevole quantità di incontri?
Credo di essere un po’ volubile. Ma è una realtà biologica per la maggior parte degli individui. Non penso che la passione possa durare più di un anno. Ritengo poi che cambiare casa o moglie sia una cura che ringiovanisce molto, e offre la grande illusione della gioventù.
Le donne le ha lasciate, o sono loro che si sono liberate di lei?
Entrambi i casi: potremmo usare la schedina del Totocalcio: 1-2-X.
Qual è il più grave difetto di una moglie, di una compagna?
La petulanza, direi.
Ha qualche complesso?
Molti. Ho delle timidezze ridicole. Mi pesa attraversare un luogo sapendo che mi riconoscono. Rispetto la mia faccia: credo di essere stato aiutato, da ragazzo, da un fisico abbastanza piacente. Eppure, guardarmi allo specchio mi disturba, lo facevo spesso, ma senza alcun diletto. Non sono mai totalmente disinvolto.
A chi deve di più?
A mia madre. Perché le assomiglio come carattere in maniera impressionante. Litigavamo sempre. La carica istrionica e fantastica mi viene da lei.
Mi riesce difficile immaginare Vittorio Gassman che piange.
Invece piango moltissimo. Mi piace, e con grande facilità, anche con euforia. È magari vergognoso, ma il pianto è come una saponetta: lava tutto.
C’è chi dice che lei è un terribile egoista.
Credo di essere egocentrico più che egoista. Mi accorgo di me, non posso fare a meno, più di quanto mi accorga del resto.
Lei ha raccontato che in un certo periodo beveva. Perché?
Molto pesantemente. Prima era un fumatore accanito, cento sigarette al giorno, ma ho smesso di colpo per un impegno preso il giorno in cui è nato mio figlio Alessandro. Allora, per riequilibrarmi, ho cominciato a trincare. Mi piace. Sollecita l’immaginazione, mette in moto tutto. Fa bene per un attore: i grandi erano tutti ubriaconi, da Edmund Kean, che si distrusse lo stomaco, a John Barrymore.
Come vede la vecchiaia?
Brutta. Ma vorrei fosse lunga, anche se un pochino fastidiosa.
Dal bilancio della sua vita che conclusioni ricava?
Non voglio fare il finto umile, sono molto contento del pacco di esperienze e della varietà del mio mestiere, ma la mia base è sempre stata nel teatro. Per un attore l’unica miniera è l’esperienza. Diffido molto degli attori che si misurano con il bilancino e che rischiano poco, perché una carriera deve avere un certo numero di catastrofi, di errori anche gravi, altrimenti è monca, si perde la benzina per riavviare il motore, per cercare strade nuove. Ecco io sono tutto sommato soddisfatto, che non vuol dire felice, perché la felicità totale mi pare molto opinabile.
Anche immorale. Grazie Gassman.
Certamente. Biagi grazie a lei.