Malcom Pagani; Andrea Scanzi, Il Fatto Quotidiano 8/2/2014, 8 febbraio 2014
MARCO PANTANI, IL MITO CHE SBAGLIÒ MOLTO E PAGÒ TUTTO
Una porta chiusa. Il mare d’inverno. Rimini bianca di nebbia, ma senza sceicchi, commedie, astrazioni né tocchi felliniani. Marco Pantani ad appassire dentro un residence dal nome floreale, con i cartoni di pizza nell’angolo, la frittata a raggrumare sul piatto. Il pasto nudo, l’amore in cantina e neanche un dado per giocarsi cielo e sogni a modo suo. Fuori, persi nella liturgia di San Valentino, i fidanzati non sapevano che nel monolocale Mimosa, 55 euro a notte per 28 metri quadri, si misurava a spanne il confine della solitudine. Senza più strumenti, lo disegnava chi era precipitato al suolo senza paracadute. Pantani. Il più amato. Il più macellato. Il ragazzo che aveva un nonno dal nome greco e a forza di ritirarsi nell’isola passò in un giorno solo – il 5 giugno 1999 – da eroe trasversale a colpevole unico. Sbagliò, come tanti. Pagò, come nessuno. Il ragazzo ammazzato due volte manca all’appello da dieci anni. Ucciso prima dalla gogna pubblica poi da una morte con troppe zone grigie. Il Pirata non è mai stato solo uno sportivo. Il ciclismo c’entrava, ma non era solo quello. Mai stato solo quello. Molto più di Panatta nel tennis e Tomba nello sci, Pantani costrinse tutti a reinventarsi fanatici della bicicletta. Parole astruse come “grimpeur” divennero parte integrante di un alfabeto quotidiano che atteneva al mirabile, all’epico: al fantastico. Prima appartenenza e poi ciclista, Pantani somigliava ad Atlante. Portava sulle spalle il suo piccolo mondo antico e, in sella, l’altro universo. I traguardi. La fama. Il podio. L’impresa. E la normalità che era stata casa sua, sempre più distante: un punto all’orizzonte, un rimpianto, poco meno di un ricordo. Pantani era, e forse da qualche parte è ancora, il trait d’union tra il quotidiano e l’eccezionale. Giusto e naturale appoggiarsi a lui, ben sapendo che il suo non era dorso da gigante, ma spalle da amico fragile. Gli infortuni ne scolpivano l’epica. La ritualistica era parte integrante ed essenziale di un contesto narrativo elaborato da uno sceneggiatore attento ai particolari. Il volto prosciugato, le orecchie a sventola, le cicatrici ovunque. I gatti che lo facevano cadere, le auto che lo investivano.
Il più grande scalatore
Un Paperino su cui non avresti puntato mai un euro, ed era anche qui – nella trasformazione, nell’abracadabra sublime tra il proletario e il paradiso – che risiedeva lo stordimento. Più che quiete dopo la tempesta, era vertigine dopo la semplicità. Non appena si sfilava la bandana da pirata di pianura e di riviera, sapevi che il prodigio avrebbe avuto luogo. Allora e solo allora. È stato il più grande scalatore di sempre. Non lo hanno certificato i tifosi, ma Charly Gaul: uno che, meritando titoli e sudando, sul tema recitava da autorità. Adriano De Zan, megafono catodico della fascinazione collettiva, soleva allungare le vocali. Aveva una predilezione per la “a”. Soprattutto per la “a”: “Scaaaaatta Pantaaaani”. E lui volava via. Non lo prendevano. Mai.
Marco Pantani scattava non perché amasse la salita, ma perché odiava il martirio. Esorcizzarlo era una maniera di respirare. “Scatto solo per abbreviare l’agonia”, amava ripetere. Dimostrando plateale inconsapevolezza di tanta felice sintesi in grado di racchiudere, in poche parole, secoli interi di filosofia. Se avesse potuto sarebbe tornato a piedi al punto di partenza. All’Amarcord descritto da Tonino Guerra ( “Lo so, lo so, lo so che un uomo a cinquant’anni ha sempre le mani pulite. E io me le lavo, due o tre volte al giorno. Ma è solo quando le trovo sporche che io mi ricordo di quando ero ragazzo”). Al Marecchia, al Montefeltro e a quella terra di mezzo tra Marche e Romagna in cui da pastore errante, con una Vicini grigio metallizzata in regalo a 12 anni, esibiva progetti chiari: “Non correrò tanto per correre”. Marco era cresciuto, cadendo e ripartendo, con le ginocchia rosse e la semplicità. Secondo Gianni Mura, Marco Pastonesi – ex ciclista e rugbista – “è il degno erede di certe grandi e passate firme del ciclismo nazionale”. Firma della Gazzetta dello Sport, Pastonesi ha scritto per le edizioni 66thand2nd un libro onesto e magnifico. Se il titolo è eretico, Pantani era un dio, umanissimo e terreno è il suo viaggio tra subalterni, parenti, mèntori e conoscenti occasionali per scolpirne il profilo. Si incontra riconoscenza, dispiacere, gratitudine. Gregari adoranti, amici inconsolabili, nessun peccato di retorica. Pantani irradiava una parabola plausibile. Riconciliava le generazioni. Con Marco i nonni tornavano giovani. Se Bartali impedì la Rivoluzione, e non si è ancora capito se la cosa sia da ritenersi un merito, Pantani fu il sogno più accessibile - e al contempo impossibile - dei Novanta italiani. Per questo, ancor più dopo la doppietta dell’anno precedente, la disillusione calò come una mannaia. Nel ’98 Giro e Tour, nel ’99 l’ematocrito. Fu portato via dall’hotel di Madonna di Campiglio alla stregua di un mafioso. Spaccò un vetro dalla rabbia e non si rialzò più.
Fu la sua prima morte, la più dolorosa. Era risorto da tutto, non da quel mattino. A ucciderlo fu un controllo “a sorpresa” pieno di falle, al termine di un Giro già vinto. La provetta unica (dovevano essere due e il ciclista doveva sceglierla personalmente), l’anticoagulante che forse non c’era, il nervosismo degli addetti ai lavori. Le rivelazioni di Renato Vallanzasca che, in carcere, venne a sapere giorni prima che “il pelatino non sarebbe arrivato a fine giro”.
Dietro a tutto questo c’era un giro di scommesse clandestine? E perché l’ematocrito in quella provetta era del 52% ma sia la sera prima in hotel sia poche ore dopo a Imola era ampiamente sotto il regolare 50%? Pantani sapeva che i gendarmi gli avrebbero chiesto sangue e generalità: si era preparato. Li aspettava. Perché suicidarsi? Quel controllo, oltretutto, non rivelò sostanze dopanti. Paradossalmente fu fermato (due settimane: il tempo esatto di perdere il Giro) per salvarlo e non per punirlo. Non fu una squalifica e avrebbe potuto correre al Tour, ma lo disertò per vuoto interiore. D’un tratto milioni di italiani lo dimenticarono: lui, unico capro espiatorio di uno sport in cui tutti sanno ma nessuno dice. Tra i pochi a mantenere anche solo il beneficio del dubbio, Gianni Minà. Che lo intervistò, in un faccia a faccia Rai che a guardarlo, ieri come oggi, fa male. Marco non c’era già più: crepato lui, crepato lo sguardo. Le gambe, no. Quelle, a volte, andavano da sole. Per esempio quando si reinventò gregario di Garzelli. O quando vinse due tappe al Tour, e anche lì, sfregio estremo, praticato con voluttà e di norma riservato a chi mostra le sue debolezze, gli vollero rubare la scena. Lance Armstrong, al tempo santo e immacolato (come cambiano i tempi) non mancò di sottolineare con grevità che, se non si fosse fatto da parte, Marco sarebbe rimasto ancora dietro: “Sul Mont Ventoux l’ho fatto vincere”. Lentamente, Marco fu dimenticato. Da molti. Da quasi tutti. Si consegnò alla depressione, alla dipendenza. Nel giugno 2003 si ricoverò in una clinica, ma guai a scriverlo: il suo ufficio stampa giocava ottusamente a rifiutare l’evidenza. Lo trovarono morto il 14 febbraio 2004 solo come un cane. Anche in quella scena, troppi dubbi. Ufficialmente overdose di cocaina, a 34 anni.
I misteri della scena finale
La madre Tonina, autrice di In nome di Marco con Francesco Ceniti per Rizzoli, non ha mai smesso di credere che si trattasse di omicidio. Oliver Laghi, il pizzaiolo che gli portò l’ultima cena, lo ricordò in uno straordinario ritratto riminese di Alessandro Giuli con il viso “gonfio e inespressivo”. Marco era odiato da mezzo mondo e i nemici, dentro e fuori il ciclismo, abbondavano. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?). Marco aveva chiamato due volte la reception parlando di due persone che lo molestavano (aneddoto catalogato come “allucinazione di un uomo ormai pazzo”). Fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta: segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio. Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera. Non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza. Il cuore di Pantani venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno. Prima di morire, Pantani era stato sette giorni in un hotel a Milano, davanti alla stazione, isolato e trasfigurato. Poi cinque giorni a Rimini, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano? Perché il cadavere aveva i boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato? E che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere (“Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”), per dietrologi e complottisti chiara dimostrazione di implicazioni massoniche? L’autopsia confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti. Di un mondo quasi favoloso, e di colpo capovolto per colpe proprie e non solo proprie, tutto o quasi evaporò. Degli eroi, che son tutti giovani e non necessariamente belli, si ricorda quello che si vuole. Gli apici e la perdizione, i giri veloci e i voli nel cielo di Zolder senza paracadute. Di Marco, un Prescelto troppo esile per un destino da immortale, l’istantanea che tutto racchiude è la sua fatica definitiva sotto la pioggia del Galibier. Andò in fuga. E non lo trovarono più.