Luisa Leone; Anna Messia, MilanoFinanza 8/2/2014, 8 febbraio 2014
CHE FATICA VENDERE
Lo aspettavano, il passo falso, i detrattori delle privatizzazioni targate Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni. E il passo falso è arrivato: il Comitato privatizzazioni, voluto dall’esecutivo per affiancare i tecnici dell’Economia nell’impervia via delle dismissioni, si è insediato da poco più di due mesi ed è già in bilico. Il gruppo di esperti, presieduto dal direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, è stato nominato lo scorso 26 novembre, sulla scorta di quanto previsto dal decreto legge numero 126 del 31 ottobre 2013, meglio noto come Salva Roma. Da allora si è riunito più volte, una anche alla presenza del premier Letta, e ha rilasciato il suo parere sugli scemi di decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (dpcm) per l’avvio della privatizzazione di Poste ed Enav. Peccato che il provvedimento che lo ha fatto uscire dalle secche della storia, dopo la sua costituzione originaria nel 1993, e che ne ha stabilito i criteri di nomina, non sia mai stato convertito in legge dello Stato. Il Salva Roma, infatti, è stato ritirato dall’esecutivo il 27 dicembre 2013, dopo che nel passaggio in Parlamento per la conversione in legge si era appesantito di tali e tante disparate norme da suscitare le critiche del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo aver rinunciato al decreto l’esecutivo ne ha emanato un altro, per riproporre le misure considerate più urgenti, ma non vi ha inserito quelle sul Comitato Privatizzazioni, né lo ha fatto dopo con altri provvedimenti. E adesso che i dpcm Poste ed Enav sono stati spediti alle Camere per il parere obbligatorio (anche se non vincolante) i nodi vengono al pettine. La senatrice di Scelta Civica Linda Lanzillotta, per esempio, infatti ha subito puntato l’indice sull’incongruenza, sottolineando che se anche l’esecutivo decidesse di metterci una pezza adesso, il problema rimarrebbe comunque. Questo perché il parere espresso sui due dpcm per l’avvio della privatizzazione di Poste ed Enav è stato emanato a fine gennaio, dopo il termine dei 60 giorni in cui il decreto legge è stato vigente, e prima di un eventuale nuovo intervento normativo da parte del governo. Questi atti del Comitato privatizzazioni sono allora da considerare validi? Ci sarà bisogno di emanarli nuovamente?
Domande cui probabilmente il governo dovrà rispondere presto, visto che annusando l’aria che tira, il Parlamento sembra intenzionato a fare le pulci ai due provvedimenti. Per ora si moltiplicano le richieste di audizioni da parte delle commissioni chiamate a esprimere il loro parere, l’amministratore delegato di Poste, Massimo Sarmi, sarà in quella Industria al Senato martedì 11 febbraio e poi dovrà passare anche in quella Lavori pubblici, che ha già stabilito di sentire anche dei rappresentanti del governo, e alla Camera dei Deputati. In questa situazione mancava solo Matteo Renzi a rendere ancora più impervia la strada delle privatizzazioni. Non perché il neo segretario del Pd le abbia in uggia, anzi a sentire i suoi esperti economici, da Yoram Gutgeld a Filippo Taddei, sono l’unica via, insieme ai tagli alla spesa pubblica, per uscire dall’angolo in cui ci ha cacciato la crisi economica (Gutgeld, in particolare, si era presentato alla ribalta politica con un piano shock, tagliare 20 miliardi di tasse «con i proventi delle privatizzazioni di Poste, Ferrovie, Rai, municipalizzate e dei campioni nazionali quotati»). No, il fatto è che Renzi rinviando alla Direzione del Pd del 20 febbraio la discussione sulle sorte del governo «senza nessuna preclusione nelle soluzioni», ha finito di terremotare quel poco che restava in piedi delle capacità programmatiche del governo Letta. In questo quadro d’incertezza il più precario dei temi di governo, le privatizzazioni rischia di rientrare nel Limbo. E pensare che alla vigilia dell’ultima Direzione Pd (quella del 6 febbraio) Enrico Letta era volato ad Abu Dhabi per convincere gli emiri a fare shopping nel Bel Paese (da Alitalia in giù), con un occhio proprio alle aziende da privatizzare da Poste a Sace e Fincantieri.
Senza contare che dal punto di vista tecnico c’è più di qualche questione da sciogliere. Per quanto riguarda Sace i consulenti (Bain & Company e Goldman Sachs per l’assicuratore del credito; Société Générale per conto dell’azionista Cassa Depositi e Prestiti) sono in piena attività per decidere modalità e valore dell’operazione. Bain, in particolare, sta lavorando al nuovo piano industriale 2014-2017. L’obiettivo è definire tutto entro inizio marzo, quando dovrà essere chiaro non solo il valore di Sace ma anche le modalità con cui la società si presenterà al mercato, se tramite un’ipo (che sembra al momento l’ipotesi più probabile) o con un collocamento a privati. Ma se c’è chiarezza sulla quota da cedere (il governo appare intenzionato a collocare il 60% delle azioni) resta però da sistemare un’altra questione un po’ più intricata. Perché Sace spa opera con la garanzia dello Stato italiano (benché il rating del gruppo, pari ad A-, sia superiore a quello dell’Italia). Come mantenere questa copertura per un’azienda che diventerebbe a maggioranza privata? Un legame che in qualche modo va allentato o quanto meno regolato. Nel caso della Sace francese, Coface, privata perché partecipata dalla banca Natixis, si è deciso di lasciare i rischi «non a mercato» (quelli che, per esempio, riguardano le coperture del credito in Paesi non Ocse) in capo allo Stato francese. Coface, che proprio in questi mesi ha aperto i cantieri per la quotazione, per questi servizi riceve dallo Stato francese una commissione; e un modello simile vale anche per l’assicuratore del credito tedesco Euler Hermes (partecipata dal colosso assicurativo Allianz) che per gestire questi rischi ha creato un consorzio insieme a Pwc. L’intenzione del governo italiano non sarebbe però quella di riportare sul bilancio dello Stato queste coperture. Altrimenti si porterebbero sulle spalle dello Stato le attività meno profittevoli (e come visto per Poste, il governo, preferisce mantenere unito il gruppo), ma soprattutto sarebbe un passo indietro rispetto al 2004, quando si decise proprio il contrario, ovvero di separare questa attività dal bilancio pubblico e racchiuderle in Sace spa che ha dovuto procedere a una profonda pulizia di portafoglio e ha poi dimostrato di riuscire a riportare in attivo l’intero gruppo, comprese le attività non a mercato (l’utile lordo della spa nel 2013 è stato di 490 milioni).
Si starebbe ragionando quindi su una soluzione alternativa e nuova il settore, come potrebbe essere per esempio una coassicurazione o un’assicurazione di ultima istanza da parte dello Stato italiano su specifiche tipologie di rischio. La discussione è entrata nel vivo e la decisione potrebbe arrivare già la prossima settimana.
Come a breve è atteso l’accordo sulla nuova convenzione tra Cassa Depositi e Prestiti e Poste Italiane.
Il gruppo guidato da Massimo Sarmi, come noto, distribuisce per conto di Cdp buoni e libretti postali e nel 2012 ha ricevuto per questo servizio un maxi assegno di 1,6 miliardi di euro. La convenzione è scaduta alla fine dello scorso anno e le parti stavano già trattando per un rinnovo non più annuale ma triennale. Il governo, a questo punto, sarebbe però intenzionato a chiedere di allungare un po’ di più il legame, a cinque anni, per dare maggiore stabilità ai ricavi di Poste in vista della cessione sul mercato del 40% dell’azienda. Ma non si tratterebbe solo di una questione di durate. Con la riscrittura dell’accordo l’intenzione delle controparti sarebbe di dare nuovo sprint alla raccolta.
I dati appena pubblicati da Cdp sul bilancio preliminare 2013 hanno evidenziato che lo stock di libretti e i buoni postali l’anno scorso è stato di 242 miliardi, in aumento rispetto ai 233 miliardi del 2012. La raccolta netta però è risultata di 3,6 miliardi, sensibilmente inferiore ai quasi 10 miliardi del 2012. Bisogna quindi fermare la frenata e se possibile ridurre la volatilità della raccolta. Proprio a questo puntano le nuove clausole che dovranno mettendo a punto Poste, Cdp e ministero dell’Economia. Ma c’è anche un altro nodo da sciogliere per Sarmi prima della privatizzazione di Poste, come sottolineato da la senatrice Lanzillotta in commissione al Senato: «Il gruppo opera con un’integrazione di tipo verticale, in una pluralità di settori, alcuni dei quali godono di fatto di un regime protetto in condizioni di sostanziale monopolio già oggetto di censura da parte dell’Antitrust».
Da queste rendite di posizione le Poste ricavano utili che vanno a finanziare altre attività meno redditizie, come fossero sussidi incrociati. «Come regolare queste attività prima della privatizzazione per evitare che si formino nuove rendite di posizione per i privati che entreranno nel capitale di Poste», si chiede Lanzillotta. Domanda che non ha ancora una risposta.