Pietro Citati, Corriere della Sera 8/2/2014, 8 febbraio 2014
PIPÌ, L’ALTRO PINOCCHIO INVENTATO DA COLLODI
Fino a trenta o venti anni fa, avevano molta fortuna, in Italia, le case editrici che vendevano libri a rate: in primo luogo la Utet, con un fatturato inferiore soltanto a quello della Mondadori. I suoi lettori non frequentavano le librerie, non seguivano le discussioni letterarie; compravano Enciclopedie, Dizionari, Storie di paesi e di letterature, collane di classici. Da qualche anno, non so per quale ragione, le vendite a rate non hanno più fortuna. L’Utet ha chiuso le pubblicazioni, ed è stata venduta alla casa editrice De Agostini. In questi giorni comincia a uscire, con il marchio Utet extra, una piccola, graziosa collana di letteratura, che attinge in buona parte proprio al catalogo Utet. Sono usciti tre titoli: una scelta del De rerum natura di Lucrezio, Anthony Shaftesbury, Lettera sull’entusiasmo (traduzione di Angela Taraborrelli, pagine 90, e 5), Carlo Collodi, Pipì o lo scimmiottino color di rosa (pagine 88, e 5); tutti a cura di Emanuele Trevi e Luna Orlando.
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Shaftesbury non era un filosofo, né un pensatore politico, né un descrittore della società del suo tempo. Il suo vero maestro era Montaigne. Come lui, nella Lettera sull’entusiasmo (scritta nel 1707), si occupava di un territorio vastissimo, l’animo umano, dove vedeva nascere tutte le idee della storia. Scriveva, o per dir meglio conversava, in modo amabilissimo e leggerissimo, rivolgendosi a «qualche grand’uomo, che avesse un ingegno fuori dal comune», la cui presenza ispirava in lui molto più di quello che sentiva normalmente. Sceglieva un tema, e ci girava attorno, con cerchi ora più ora meno larghi, allontanando o avvicinando la penna al tema centrale, fino a quando aveva detto tutto ciò che portava nella mente. Mentre conversava con il «grand’uomo», parlava con i lettori: non soltanto i colti e gli eruditi, ma tutti i lettori, o almeno quelli che pensavano alla propria natura di uomini.
Shaftesbury parlava volentieri del suo tempo, dominato dall’analisi, dall’ironia e dalla satira. Lo amava moltissimo, sebbene non avesse nessuna simpatia per la moda e le convenzioni. «Non v’è mai stata nella storia del nostro Paese — diceva — un’età in cui follie e stravaganze di ogni tipo siano state esaminate in modi così pungenti, e ridicolizzate con tanta arguzia». Niente veniva risparmiato perché intoccabile. Solo in una nazione libera come nell’Inghilterra del suo tempo — insisteva —, l’impostura non godeva di nessun privilegio: né il credito di una corte, né il potere della nobiltà, né la maestà di una Chiesa le offrivano protezione e impedivano che venisse giudicata. Lo spirito di Shaftesbury era il respiro stesso della leggerezza. Rifuggiva soprattutto dalla recitazione e dalla falsa gravità, nate, diceva, «dalla stessa essenza dell’impostura». Non tollerava che lo scrittore fosse troppo serio, e che alzasse troppo il tono, e interveniva di continuo, smorzando e mitigando la musica della prosa.
Shaftesbury sapeva che il mondo era nutrito di passioni, che ora chiamava entusiasmo, ora panico, ora melanconia, ora fanatismo. Non c’erano momenti che detestasse più di quelli in cui la mente umana si invasava e si eccitava di sé stessa. «Quando la mente era immersa in una visione, e vedeva, o credeva di vedere, cose prodigiose e sovrumane, allora il suo orrore, la sua confusione, la paura, l’ammirazione avevano qualcosa di vasto, di immane e (come dicono i pittori) di ultraterreno. Questo — concludeva Shaftesbury — ha dato origine alla parola “fanatismo”». Ma non c’era nulla di più erroneo che proscrivere con la violenza e sopprimere queste passioni, o eccitare contro di esse altre passioni. Esisteva una sola arma: l’ironia, il buon senso, l’allegria, lo spirito critico, che Shaftesbury maneggiava con rara eleganza.
Così egli distingueva la vera ispirazione divina, che tollerava e anzi amava la ragione e l’ironia, dall’odioso entusiasmo. «Per giudicare — diceva — se gli spiriti vengono da Dio, dobbiamo prima giudicare se il nostro spirito è in uno stato di ragionevolezza e di senno, se sia adatto a giudicare con calma, freddezza e imparzialità, scevro da ogni passione assoluta, da ogni vapore che dia le vertigini, o che sia fonte di malinconia». Quando i «vapori» vengono aboliti, resta, pura e nitidissima nella nostra mente, l’ispirazione divina: apollinea, platonica, cristiana. Allora regna la vera religione: la più amabile e generosa disposizione d’anima, dove si esprime l’originaria idea di libertà della natura umana.
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Sebbene Minuzzolo e le traduzioni delle fiabe seicentesche francesi siano libri deliziosi, niente, nei primi scritti di Carlo Collodi, preannuncia lo scoppio grandioso di genialità che fa delle Avventure di Pinocchio uno degli assoluti capolavori della letteratura italiana. Come Collodi abbia potuto scrivere un libro così complicato e simbolico, rimane in buona parte un mistero. L’unica cosa certa è che Collodi non era solo. Aveva letto l’Odissea , Gli uccelli di Aristofane, le Metamorfosi di Apuleio, la Storia vera di Luciano, le favole francesi, Le avventure di Robinson Crusoe , I viaggi di Gulliver ; e con l’aiuto di questi testi gli fu possibile scrivere un libro che sorprese anche lui stesso.
Nel 1887, quattro anni dopo Pinocchio , Collodi pubblicò in volume il lungo racconto Pipì o lo scimmiottino color di rosa , oggi quasi completamente sconosciuto. Esso non ha nulla della genialità simbolica di Pinocchio , ma è incantevole per grazia, leggerezza e buonumore. La figura di Pipì continua quella del burattino: col muso vispo e intelligente, gli occhi furbi, una bocca che ride sempre. «Sono una birba matricolata», dice di sé stesso. Forse Pipì è più «garbato e complimentoso» di Pinocchio: ma, quando parla, ascoltiamo l’indimenticabile voce legnosa che ci aveva incantato nel grande libro. «Sor assassino che mi darebbe un chicco d’uva, o una ciliegia, o anche una mezza pera solamente? Son digiuno da tanti giorni, e sento che lo stomaco mi va via. La creda, sor assassino, ho una fame così grande, che la vedo anche al buio».
Lo scimmiotto viveva nel bosco di Vattel’a pesca, con il padre, la madre e cinque fratelli, «alti quanto un soldo di cacio». Abitavano su un albero gigantesco, pagando quindici susine l’anno di affitto a un vecchio gorilla, che si era messo in capo di essere il padrone di casa. Dei cinque scimmiotti, quattro avevano il pelame scuro come la cioccolata: il più piccolo era ricoperto, salvo il muso, di una finissima lanugine color vermiglio-carmicino; in casa lo chiamavano tutti con il soprannome di Pipì , parola che nella lingua delle scimmie vuol dire appunto — spiega Collodi — color di rosa .
La più grande passione di Pipì era di scimmiottare tutto quello che vedeva fare agli uomini. Un giorno scorse un ragazzo fumare la pipa: rimase incantato, vedendo quei bei nugoli di fumo che gli uscivano dalla bocca e, quando il ragazzetto si addormentò, gli rubò la pipa e cominciò a fumare con la stessa disinvoltura di un vecchio marinaio. La mamma e di fratelli ridevano. Il padre, che era pieno di giudizio e di esperienza, gli disse: «Bada Pipì! A forza di scimmiottare gli uomini, un giorno o l’altro diventerai un uomo anche tu. Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi». Un giorno Pipì salì su un albero sporgente sull’acqua, che stava sopra a un vecchio coccodrillo, si calò di ramo in ramo e, tenendosi penzoloni per aria, si allungò e si distese così da toccare con la punta della coda il naso del coccodrillo. Appena sentì la coda di Pipì, il coccodrillo chiuse la bocca, e con un semplice morso gliela staccò di netto.
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Nelle Avventure di Pinocchio , appariva la fata delle favole antiche: la Signora degli Animali, la Regina delle Metamorfosi, la Tessitrice dei Destini, sotto il nome di Fata dai capelli turchini. Non sopportava di conservare la stessa figura, o non possedeva una figura definita, ma soltanto lo sfolgorante color turchino attorno al quale ruotava una moltitudine di figure: l’immagine cerea della bambina morta, la Fata-sorella, la modesta donnina industriosa dell’isola delle Api, l’elegante signora col medaglione, la capretta dal pelo turchino, la falsa malata in fondo a un letto di ospedale. Elèmire Zolla ricordò la figura di Iside, che incorona le Metamorfosi di Apuleio. Non c’è dubbio che siamo vicini al suo regno. Ma mentre Iside raccoglie in sé l’umida virtù generatrice della luna e un dolcissimo alone erotico, la Fata dai capelli turchini è una figura del tutto priva di eros.
Nello Scimmiottino color di rosa riappare la fata: ecco una spilla d’oro, con una grande perla sulla quale si vede dipinta la testa di una bambina con i capelli turchini; e un coniglio col pelo turchino, che sta affacciato sulla porta di una piccola casa senza finestre. Ora la fata ha un figlio, Alfredo. Il suo progetto non è più l’immensa metamorfosi che costituisce il tema di Pinocchio , ma soltanto quello di indurre lo scimmiottino a fare un viaggio insieme al figlio.
Pipì si preparò al viaggio, ma quando si vide allo specchio vestito da ragazzo, con due scarpini scollati di pelle lustra, un fiocchettino di seta, un paio di calzoncini rossi e un giubbetto a coda di rondine, cominciò a strillare disperatamente: «Oh come sono brutto! Non sono più io! Non sono più Pipì! Mi hanno vestito da uomo… E sono diventato un mostro da far paura». Così rifiutava di appartenere al mondo umano: ciò che era invece la meta e l’ardente desiderio di Pinocchio.
Spiccato un gran salto, Pipì uscì dalla finestra e si diede a correre per i campi. Il padre lo riportò a casa, dai fratelli. «Credete a me — scrive Collodi —: fu una scena così affettuosa e commovente, che è impossibile immaginarsela senza averla veduta con i propri occhi. Basti dire che l’allegrezza dei quattro fratelli nel rivedere il loro fratellino minore, che oramai credevano perduto per sempre, fu così tempestosa e smodata, che gli saltarono addosso tutti assieme e ci corse poco che non lo soffocassero sotto un diluvio di baci, di abbracciamenti e di carezze… Si posero seduti per terra intorno a una gran cesta di pesche, di albicocchi e di fichi d’India, e lì, ridendo, grattandosi e facendo con la bocca mille smorfie e mille versacci in segno di grande esultanza, mangiarono a più riprese, come se fossero digiuni da due settimane».
Come è naturale, alla fine la Fata dai capelli turchini realizzò il suo progetto. Il figlio, Alfredo, ritrovò Pipì: con mille lire, l’acquistò da Golasecca, il bonario assassino, e partì con lui, «sopra un bastimento della Società Rubattino, per un lungo viaggio d’istruzione». Queste righe annunciano un altro libro: Il viaggio attorno all’Italia , che Collodi, ucciso dalla rottura di un aneurisma, la sera del 26 ottobre 1890, davanti al portone di casa, non riuscì a scrivere.