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 2014  febbraio 08 Sabato calendario

“VOLEVO ESSERE IL NUOVO JOYCE”


Vive due vite, tutte e due di successo. Come avvocato, è uno dei penalisti più importanti di Chicago. Come scrittore, basti dire questo: è stato tradotto in venticinque lingue e ha venduto trenta milioni di copie. Scott Turow, 65 anni il prossimo 12 aprile, ha saputo mescolare con maestria le due vocazioni: i suoi libri sono gialli che si sviluppano nelle aule di giustizia. Li chiamano legal thriller. L’ultimo della serie si intitola Identici (Mondadori, pp, 333, €20) e ha come protagonisti due gemelli monozigoti, talmente uguali da poter vivere l’uno la vita dell’altro.

Ci incontriamo in un grande albergo milanese. Il suo look – camicia a righe e cravatta – oggi è più da avvocato che da scrittore: ma parleremo soprattutto di libri, di quelli che ha scritto e ancor più di quelli che ha letto. Considerando che è arrivato in Italia la mattina presto, l’incontro – a metà pomeriggio – deve costargli un piccolo sacrificio: «Chiedo scusa», dice subito, «se risentirò un po’ del jet lag». È cortese, preciso, deciso. Come tutti gli americani che vediamo intervistati in tv, dopo ogni domanda comincia la sua risposta con un «Well».
Nel suo nuovo romanzo, «Identici», lei si ispira al mito greco di Castore e Polluce. I classici sono stati importanti nella sua formazione?
«Veramente, io non ho avuto un’istruzione spiccatamente classica. Solo all’università, e per la prima volta, mi sono imbattuto in Platone e Aristotele. Ma oggi negli Stati Uniti c’è un improvviso revival della mitologia greca. In particolare tra i giovani. È sorprendente. Per una ragione che mi sfugge, i classici sono usciti dall’angolo».
È per via di questo revival che ha deciso di usare il mito dei Dioscuri, i gemelli figli di Zeus?
«Per questo, ma anche per una serie di motivi personali e familiari. Il tema dei gemelli mi affascina da quando avevo tre anni, cioè da quando nacque mia sorella Vicky: aveva una gemella, che nacque morta. Questa vicenda mi ha sempre tormentato. Poi, molti anni fa, ho avuto una relazione con una donna greca, e ho imparato da lei molti aspetti della cultura e della tradizione di quel popolo. Così, per questi motivi, ho accarezzato l’idea che tutti i protagonisti del mio nuovo romanzo avessero a che fare con la Grecia. Questo mi ha portato a elaborare il mito di Castore e Polluce. Ma ho passato settimane a pensare a come usarlo».

Quali sono i libri della sua vita? Quelli che l’hanno fatta innamorare del mestiere di scrittore?
«Ci sono diversi libri in tempi diversi. Il primo è stato I
l Conte di Montecristo. Lo lessi a undici anni. Ebbene, da allora non ho mai provato altrettanto entusiasmo per un libro. Tra l’altro, quel romanzo mi ha fatto capire profondamente la grande ambizione di mia madre, che voleva diventare scrittrice. Quelle pagine di Dumas padre mi hanno fatto pensare: se leggere mi provoca tanto entusiasmo, chissà come sarebbe meraviglioso scrivere. Ho capito così che anche a me sarebbe piaciuto fare lo scrittore».
Il secondo libro della sua vita?
«Alla fine del liceo ho letto Ritratto dell’artista da giovane di Joyce e ho precisato il mio sogno: non più, o meglio non solo, “voglio fare lo scrittore”; ma “voglio essere il nuovo Joyce”. Poi però, quando ho letto anche l’Ulisse, non ero più tanto sicuro di quel mio desiderio».
Perché?
«In quel momento Ulisse di Joyce, in molti circoli letterari degli Stati Uniti, era considerato il capolavoro assoluto della letteratura. Per me non lo era. Si discostava molto dalla mia concezione di romanzo. Mi sembrò che quello dei circoli letterari fosse molto rumore per nulla».
Altri libri della vita.
«All’università rimasi affascinato da Saul Bellow. Solo molti anni dopo ne compresi il motivo: Bellow aveva fatto il liceo insieme a mio padre. La verità è che, attraverso i suoi libri, cercavo di capire mio padre, che era una persona molto enigmatica. Di Bellow sento ancora un po’ di riverbero nella mia scrittura. Un altro libro importante è stato Corri, coniglio di John Updike: l’ho riletto cinque volte. Però, veda, tutti questi libri in fondo mi preoccupavano un po’. Più li leggevo, più capivo che non avevano avuto su di me lo stesso impatto del Conte di Montecristo».
Quando ha trovato la chiave per scrivere dei thriller?
«Solo quando sono entrato a Stanford per il corso di scrittura creativa. Lì ho trovato, in Graham Greene e in John Le Carré, la perfetta fusione tra la qualità letteraria e quel realismo psicologico che dà il senso di suspense. Io trovo che quella fusione raggiunga la perfezione ne Il potere e la gloria di Greene. L’altro scrittore sempre presente nella mia vita, fin da bambino, è stato Charles Dickens. Per anni ho cercato di scacciarlo dalla mia mente, pensando che i suoi racconti fossero troppo – come dire – familiari. Solo dopo tanto tempo ho capito che il suo stile è veramente superlativo. Anzi, se mi devo paragonare a uno di questi scrittori che le ho citato, dico senz’altro Dickens. È quello che mi ha influenzato più di tutti. Più passano gli anni, più lo apprezzo».
Come legge? Carta o e-book?
«In generale sull’I pad. È più comodo. E poi non devo andare in giro per la casa a gridare “Chi mi ha rubato il libro?”»
Quando legge?
«La sera. Una-due ore a letto, prima di dormire».
E quando scrive?
«Preferisco scrivere la mattina. Ma in realtà scrivo quando posso: nei ritagli di tempo. Ci sono alcuni periodi di grazia, come questo, durante i quali tutto quello che scrivo sembra scorrere bene. Così, ad esempio, questa mattina ho scritto in macchina, dall’aeroporto di Malpensa a qui. Scrivo con l’Ipad, attaccando una tastiera».
È vero che il suo primo romanzo, «Presunto innocente», l’ha scritto in treno mentre andava a lavorare?
«Sì, è vero: la prima parte la scrissi in treno. Anche ieri ho scritto in aereo! A un certo punto ho guardato l’orologio: erano le otto di sera e mi son detto: adesso smettila. Ho cenato, e ho fatto in tempo a vedere un film prima di dormire».
Quale delle sue due vite ama di più? Avvocato o scrittore?
«Senza una di quelle due vite, mi mancherebbe qualcosa. Io sognavo di fare lo scrittore. Ma è un lavoro che comporta un difficile isolamento. Mio nonno, un russo, quando ero ragazzino mi diceva: “Ma che razza di vita fai? Tutto il giorno chiuso in una stanza con una matita!”. Grazie al mio mestiere di penalista, vivo una vita di relazioni. Se avessi fatto solo lo scrittore, avrei potuto vivere tranquillamente in un’isola deserta».