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 2014  febbraio 10 Lunedì calendario

GIAGANTI AZZURRI

L’urlo, le lacrime, le mani al cielo di Christof Innerhofer, il pugnetto sinistro, le braccia alzate di Armin Zoeggeler impazzito di felicità. Ci portiamo via queste due immagini per la giornata olimpica dell’Italia che d’oro non è, ma vale di più. Si torna sul podio di una discesa olimpica 38 anni dopo il bronzo di Herbert Plank, il portabandiera azzurro sfreccia nella leggenda con la sua slitta: sei medaglie in sei edizioni dei Giochi olimpici invernali, come nessuno mai.

Antipodi Ci sono 109 chilometri fra l’Alto Adige di Innerhofer, nato e cresciuto a Gais, e quello di Zoeggeler, da sempre uno dei pochi residenti di Foiana, frazione di Lana sulla strada che porta al Passo Palade. Più o meno la stessa distanza tra i caratteri dei due: Inner che non sta mai zitto, Armin che centellina parole e gesti e poi ogni tanto esplode e non si ferma più, come ieri dopo il successo più bello. Non si intimidisce più per il suo italiano che è la seconda lingua, non ha paura di lanciarsi in neologismi azzardati: ogni tanto dice temporale al posto di tempo, qualche volta ci scappa un «mangiato di pranzo» invece che pranzato, non ha paura di riconoscere: «Difetto? Non so che cosa vuol dire». Con quel modo lì, che è il suo, di essere sempre vero.

Parole Era il 14 febbraio del 1994 fa quando Zoeggeler diventò a vent’anni e pochi spiccioli il più giovane medagliato olimpico dello slittino. Il suo vocabolario di italiano era ancora più scarno dell’attuale, la timidezza oltre ogni limite. Dopo qualche minuto di interviste e di assalto dei giornalisti si aggrappò al braccio dell’allenatrice di quei tempi, Maria Luise Rainer, per un sos in tedesco: «Per favore, portami via di qui».
Era il 12 novembre 2006 quando Christof Innerhofer da Gais mise piede in Coppa del Mondo in uno slalom, a Levi, in Finlandia. I problemi alla schiena c’erano già, così come la parlantina, il carattere aperto, la capacità prodigiosa di ricordare tutto, dalla variazione di un indice Mib di due mesi fa alla buchetta dopo la seconda porta rossa della traversa ghiacciata di Kitzbuehel.

Perfezionisti Inner parla sempre, anche da solo, come ieri in gara, quando tra sé e sé si è spinto fino a un argento che ha festeggiato come una vittoria. Una volta risaliva a scaletta la pista durante la ricognizione prima della gara, sfiancandosi, per studiare al millimetro un passaggio, magari dopo aver chiesto consiglio a Maier, Cuche o Miller. Ora non più, ieri ha solo dato un’occhiata ai dettagli, ma con serenità. Il resto ce l’ha tutto in testa, sa snocciolare intermedio per intermedio i tempi degli avversari, le linee scelte, le condizioni della pista di quella volta nel 2009, gli albi d’oro, i record. Compresi i suoi: «So che come Zeno Colò ho vinto tre medaglie ai Mondiali, so che come Ghedina ho vinto 3 discese di Coppa del Mondo, so che sono la prima medaglia in discesa dopo 38 anni». Se lo lasciate fare, potrebbe andare avanti così per ore e ore.

Fenomeni In comune gli altoatesini da medaglia condividono una tecnica da fuoriclasse. Inner per quel modo di accelerare in curva, di accarezzare la neve con le lamine che ieri gli ha permesso di salire sul podio quando la pista si era già rovinata. Armin per il senso della velocità, per la sensibilità di guida – lo slittino si guida con movimenti del bacino – e la capacità di non alzare mai la testa per controllare dove si va. Non ne ha bisogno, lui sa come si fa da quella volta che era un bambino e si presentò sulla porta della scuola in slittino, da Foiana a Lana. La sua slitta, da allora, è più che una compagna. «Certo che l’ho baciata – scherza con l’occhio furbetto – dopo mia moglie c’è lei».

Classici «Inner è il prototipo dello sciatore moderno», spiega il d.t. dello sci alpino Claudio Ravetto. «Armin è un tipo eccezionale che è rimasto sempre con i piedi per terra, non ha mai fatto la star. Ha una capacità di chiudersi in se stesso, di isolarsi nei momenti che contano, solo così puoi continuare a vincere per vent’anni», se lo coccola il direttore agonistico Karl Damian. «Avete visto come piangevano i due tedeschi? E’ perché sanno che questa era l’ultima volta che lo vedevano, è entrato nella leggenda e io spero che resti nello slittino». Oggi, per paura di montarsi troppo la testa, sarà a dare una mano ai tecnici azzurri nell’allenamento del doppio.

La famiglia Inner si è ritirato dalla carriera di sciupafemmine dopo aver incontrato Martina, giornalista che gli ha rubato il cuore. Inner dedica l’argento ai genitori e allo zio scomparso nella primavera scorsa. «I miei genitori mi hanno messo sugli sci, lo zio mi ha aiutato tanto. La sua scomparsa mi ha fatto pensare: c’è una cerchia più stretta di persone che ci sono sempre, poi quando vinci può essere che ti distrai e guardi a chi sta fuori da questa cerchia. Ho imparato che bisogna tornare alle origini». Le radici che Zoeggeler non ha mai rinnegato. Figlio di una famiglia di contadini, con il fratello e il papà è diventato allevatore di cavalli avelignesi nel maso Gruberhof, non lontano da casa. Marito di Monika, papà di Nina e Thomas, non ha mai voluto che le luci dei trionfi illuminassero troppo la sua vita privata. «La velocità è sempre stata passione, auto, moto, motocross. Ma da quando ho famiglia ho abbandonato tutte quelle cose». Come se volare a 140 chilometri all’ora in un budello di ghiaccio fosse una passeggiata di salute.

Tifosi Armin ha guardato la gara di Inner sugli schermi della palestra del villaggio olimpico. Inner l’ha seguito da Casa Italia, ad Adler, con la medaglia al collo: «Grande Armin, sei un grande atleta e un grande personaggio. Sono troppo contento per la tua medaglia». Inner ha avuto paura di perdere tutto, per il mal di schiena che ogni tanto lo tortura, ma ha imparato: «Sono fortunato, posso fare quello che amo». Armin per lo stesso malanno ha perso l’occasione di rimpinguare i primati. Forse è stata la prima di una serie di medaglie per Inner, che quando comincia, come ai Mondiali di Garmisch 2011, non si ferma più. E forse Kipling parlava di Zoeggeler quando scriveva così: «Se saprai serrare il tuo cuore, tendini e nervi nel servire il tuo scopo quando sono da tempo sfiniti». Dice Armin che potrebbe essere il momento giusto per dire basta, che anche le storie più belle hanno la parola fine. Ogni tanto, quando sono leggende, sono per sempre.