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 2014  febbraio 08 Sabato calendario

I NUOVI CROCIATI DEGLI OGM “SONO IL FUTURO DEI CONTADINI”


PEGOGNAGA (Mantova)
RUMINANO tranquille, nella grande stalla, le 140 vacche dell’azienda Lasagna. La campagna mantovana è la più grande “fabbrica” italiana di formaggi e di carne. Cinquecentomila vacche da latte, 1,3 milioni di maiali, 150.000 bovini da carne.
TUTTI animali nutriti soprattutto a mais e soia. Ed è proprio in questa enorme fabbrica (dove vengono lavorati parmigiano e grana padano, cosce per il prosciutto di Parma e per il San Daniele, bistecche e braciole per macellerie e supermercati) che si spacca la linea Maginot dei contadini italiani, fino ad oggi uniti e compatti contro gli ogm, organismi geneticamente modificati.
Fino ad oggi un solo coltivatore, a Vivaro in Friuli, aveva seminato mais ogm — su un piccolo appezzamento di poco più di mezzo ettaro — fra proteste, denunce e mobilitazioni di ambientalisti e soprattutto di contadini. Adesso invece una “Petizione pro mais transgenico Mon 810” viene firmata da oltre 600 imprenditori agricoli del mantovano (associati alla Confagricoltura) e inviata alla Regione Lombardia.
«Entro la fine del mese — dice Matteo Lasagna, presidente della Confagri nella patria di Virgilio — pensiamo di arrivare a 1.000 firme.
Non raccolte con i banchetti ai mercati, ma soltanto fra i rappresentanti legali delle aziende. Qui a Mantova il nostro peso è forte: i nostri soci lavorano il 50% della Sau, Superficie agricola utilizzabile, della provincia». Facile prevedere una battaglia interna al mondo contadino, già diviso in associazioni che raramente trovano mobilitazioni unitarie. «Noi non vogliamo fare la guerra a nessuno » racconta il presidente Lasagna. «Vogliamo una discussione laica, senza ideologie. Vogliamo una ricerca scientifica — fatta dalle università, non dalla Monsanto — che dia risposte precise. Gli ogm sono già nel nostro Paese. Il 90% della soia mangiata dai nostri animali è geneticamente modificata, come il 40% del mais. Non saliremo sulle barricate, se la Regione dirà no. Ma come potranno, i politici, parlare di libertà d’impresa se ci impediranno di produrre, e non solo comprare, il mais ogm?».
Il Mon 810 è un prodotto Monsanto. Nei semi è stato introdotto un gene tratto dal Bacillus thuringiensis che produce una sostanza velenosa per gli insetti come la «Piralide del mais europea». «Questo insetto buca la pianta e scava gallerie nelle pannocchie. Così la pianta viene attaccata dalle aflatossine, che ad esempio hanno rovinato gran parte del raccolto di mais due anni fa. La Piralide è un vero flagello, nella pianura padana». Hanno già fatto i conti, alla Confagricoltura. «Con semi ogm, ci potranno essere una produzione più alta di almeno il 10% e minori costi pari a 110 euro per ettaro. E soprattutto avremo un prodotto più sano, non attaccabile da funghi e tossine. Non è vero che le colture Ogm inquinano o bloccano il biologico: negli Stati Uniti, dove si coltivano mais, soia e cotone al 100% ogm, il biologico è in continua crescita, come in Brasile o in Argentina. In Spagna seminano ogm da sei anni e il 60% del terreno è ancora occupato dagli ibridi tradizionali».
Pochi dubbi, fra i tifosi dell’ogm. «Ciò che era innovazione 50 anni fa è già diventato tradizione. I nostri nonni producevano 60 quintali di mais per ettaro e cercando nuovi ibridi siamo riusciti ad arrivare a 120 quintali. Con l’ogm potremo arrivare a 150 — 160 quintali e senza uso di insetticidi e antiparassitari. Dobbiamo continuare l’innovazione che a sua volta diventerà tradizione. Non dimentichiamo che il “grano duro” è stato “inventato” grazie al bombardamento nucleare. Per questo chiediamo che siano applicate anche in Italia le sentenze della Corte di Giustizia europea».
La frattura, nel mondo contadino, è nettissima. «In questo modo — dicono Ettore Prandini, presidente regionale della Coldiretti e Mauro Fiamozzi, direttore della sede provinciale — semplicemente si uccide la nostra agricoltura. Lavorare in modo tradizionale è difficile ma senza questo impegno non ci può essere Made in Italy. Con gli ogm le nostre coltivazioni sarebbero omologate a quelle di tutto il mondo e senza biodiversità non avremmo nessun valore aggiunto. Con una battaglia limitata ai prezzi noi italiani — fra costi di manodopera ed energia e costi della burocrazia — saremmo certamente perdenti. L’agroalimentare, la cucina, i monumenti e la nostra storia sono i soli beni che non possono essere delocalizzati. Sono la nostra vera ricchezza. Buttarli al vento sarebbe assurdo. Soprattutto nel momento in cui, con l’Expo 2015, il cibo italiano sarà in una vetrina visibile in tutto il mondo».